Troppe informazioni, troppe persone, troppa voglia di condividere dettagli che sarebbe meglio tenere segreti: gli avvocati divorzisti e i datori di lavoro hanno trovato l’isola del tesoro. E neanche c’è bisogno di scavare troppo. Secondo L’ American Accademy of Matrimonial Lawyer l’81 per cento dei suoi membri ha utilizzato (o si è trovato a doversi confrontare con) prove trovate sui social network , tra cui Facebook, MySpace, Twitter, YouTube, Linkedin e altri social network.
Facebook, tra tutti, la fa da padrone per quanto riguarda le indiscrezioni e degli autogol in sede giudiziaria: tutte le piccole scappatelle virtuali possono (se non si adottano le opportune precauzioni) diventare spine nel fianco della vita reale. Secondo un sondaggio – del resto – un adulto su cinque utilizza il social network in blu per flirtare. Se poi si aggiungono serate senza freni inibitori (come per esempio nel caso del dipendente Apple custode del nuovo iPhone), sfoghi condivisi in bacheca e album fotografici, ecco che ne viene fuori un fascicolo interessante.
Gli avvocati raccontano di un padre che è arrivato a costringere il figlio a togliere l’amicizia alla madre mostrando come fosse cinico, di un altro che si è iscritto su un sito di incontri dichiarandosi single, di un madre che invece di seguire gli eventi dei figli si trovava su World of Warcraft o su Farmville e di una donna che aveva caricato foto in cui fumava marijuana pur avendo dichiarato in tribunale di non averne fumata.
Il 66 per cento degli avvocati intervistati ha utilizzato in processo le debolezze scovate su Facebook , il 15 per cento su MySpace, il 5 su Twitter.
Dimenticarsi che la privacy online e soprattutto sui social network dipende molto dalla propria consapevolezza nel condividere può costare tanto in un processo per divorzio, ma avere una pagina non immacolata spesso ha il suo peso anche nel momento in cui si sta cercando lavoro: che i datori di lavoro controllino i possibili dipendenti con una rapida occhiata ai social network è d’altronde cosa nota. Anche se non perfettamente legale.
Religione, preferenze sessuali, attitudini e altre informazioni personali sono tutti dati che, teoricamente, non dovrebbero emergere nel corso di un colloquio e che dovrebbero in ogni caso essere ininfluenti ai fini dell’assunzione. Tanto che, se fosse possibile verificare che il datore di lavoro le ha utilizzate, sarebbero impugnabili per una denuncia per discriminazione .
Claudio Tamburrino