È lecito che Facebook suddivida i propri iscritti in base alle cosiddette “affinità etniche”, oltre all’età, al genere e alla localizzazione, per le campagne pubblicitarie? Per qualcuno, come ProPublica , tale scelta rischia di sfiorare la discriminazione. ProPublica torna su un tema già dibattuto , e punta l’indice contro la possibilità per Facebook di includere o escludere gli utenti da una campagna pubblicitaria sulla base delle loro affinità etniche . Un comportamento non nuovo, ma che i giornalisti Julia Angwin e Terry Parris hanno esaminato alla luce delle leggi federali americane che proibiscono la pubblicità discriminatoria . I due reporter hanno mostrato le opzioni pubblicitarie di Facebook a un avvocato esperto in diritti civili, John Relman, suscitando la sua reazione sdegnata: “orribile, decisamente illegale, palese violazione del Fair Housing Act” sono state le sue risposte.
Il Fair Housing Act del 1968 considera illegale “fare, stampare o pubblicare, o essere causa di produzione, stampa o pubblicazione, qualsiasi notizia, annuncio o pubblicità che riguardi la vendita o l’affitto di una casa, che indichi qualsivoglia preferenza, limitazione o discriminazione basata su razza, colore della pelle, religione, sesso, handicap, stato familiare o nazione di origine”. La violazione di queste norme comporta sanzioni per decine di migliaia di dollari. Anche il Civil Rights Act del 1964 proibisce la “stampa o pubblicazione di notizie o pubblicità indicanti preferenze vietate, limitazioni, specifiche o discriminazioni” negli annunci di impiego.
Facebook ha risposto a queste accuse in un post sul blog ufficiale a firma di Christian Martinez, capo del settore multiculturale, facendo notare come le “affinità etniche” non siano basate esattamente sulla etnicità degli utenti, bensì su “like e altre attività su Facebook che suggeriscono che quell’utente sia interessato a contenuti legati a una particolare comunità etnica”. Gli utenti hanno, quindi, la possibilità di variare le loro preferenze in fatto di campagne pubblicitarie. Secondo Martinez, questo genere di targettizzazione non è negativo: “Per esempio – sostiene il manager di Facebook – una organizzazione non-profit che ospita una fiera del lavoro per la comunità ispanica può utilizzare la pubblicità su Facebook per ricercare persone che
hanno un interesse in questa comunità. E un commerciante che vende prodotti per la cura dei capelli pensati per le donne di colore può raggiungere le persone che potrebbero essere maggiormente interessate a questi prodotti”.
Quanto alle accuse di pubblicità discriminatoria, Martinez replica affermando che “le nostre politiche proibiscono rigorosamente questo tipo di pubblicità, che è contro la legge. Se veniamo a conoscenza di pubblicità sulla nostra piattaforma che includono questo tipo di discriminazione, intraprendiamo subito le giuste azioni di contrasto. Siamo consapevoli anche che, come sito web, spesso non siamo nella posizione di conoscere i dettagli di un annuncio di appartamento in affitto o di ricerca di lavoro, ma rimuoviamo subito una pubblicità dalla nostra piattaforma se un’agenzia governativa ci intima di farlo perché quella pubblicità riflette una discriminazione illegale”.
Posizione sostenuta con forza anche da Steve Satterfield, manager per la privacy e le pratiche pubbliche di Facebook. Per gli investitori pubblicitari, sostiene, è importante avere la possibilità sia di includere sia di escludere gruppi di persone a seconda delle necessità di marketing. Per esempio, “un pubblicitario potrebbe condurre una campagna in inglese che escluda il gruppo di affinità degli ispanici per vedere come funziona rispetto a una analoga campagna in lingua spagnola. Si tratta di una pratica comune nell’industria” afferma Satterfield. Per il manager, le “affinità etniche” introdotte da Facebook circa due anni orsono come parte di una strategia di “pubblicità multiculturale” non significano razzismo. Facebook, infatti, non suddivide gli iscritti in base alla loro appartenenza etnica bensì alle loro preferenze, basate sulle pagine visitate o i post ai quali hanno cliccato “mi piace”.
Della questione si è interessato anche il quotidiano inglese The Guardian . In un
articolo apparso online si legge: “Non c’è ragione di supporre che la società (Facebook, ndr) intenda facilitare o approvare una discriminazione illegale. Ma la storia rimane una terribile illustrazione del potere del big data. Immaginiamo cosa potrebbe accadere se questo venisse sfruttato a fini politici”.
Pierluigi Sandonnini