Uno studio condotto da Facebook nel 2012 ha generato diverse polemiche : a non piacere ad utenti ed osservatori il fatto che il social network abbia manipolato la visualizzazione di determinate notizie nel news feed di alcuni utenti per verificarne l’interessamento e l’influenza generata da alcuni tipi di commenti.
Nella ricerca condotta da Adam Kramera, Jamie Guillory e Jeffrey Hancock sono stati analizzate le interazioni di un ristretto gruppo di profili (circa lo 0,04 percento degli utenti totale) per un periodo di tempo limitato (circa una settimana all’inizio del 2012) con lo scopo di verificare se gli stati emotivi si possono trasmettere ed influenzare attraverso un social network in una sorta di “contagio emotivo”. L’osservazione si è svolta cercando di “de-priorizzare” nella cronologia di tali profii con il “minimo impatto” possibile la visualizzazione di “una piccola percentuale” di contenuti, individuati perché avevano al loro interno alcune parole relative a sentimenti positivi, preselezionate in fase di definizione della ricerca.
Nessun post è stato nascosto, ci hanno tenuto a dire i ricercatori, ma si è trattato semplicemente di un “accantonamento” momentaneo e relativo a solo determinate visualizzazioni.
Anche se Facebook non è intervenuto direttamente sulla questione, uno degli studiosi, Kramer, ha spiegato che l’esperimento è stato condotto per “investigare una delle preoccupazioni comuni, cioè quella secondo cui vedere i post positivi degli amici possa portare a sentimenti negativi ed alla fine a lasciare il social network”. Insomma, il sito in blu temeva quella che Carlos Ruiz Zafón definisce la religione dei mediocri: l’invidia. O meglio il possibile legame tra questa, le comunicazioni sui social network, ed alcune forme di depressione.
La conclusione sembra aver smentito la paura iniziale: vedere alcune esternazioni positive ne incoraggia di simili invece che scoraggiarne. Insomma, più che l’invidia su Facebook sembra vigere il principio economico “keep up with the Smith”, che inquadra l’invidia dei vicini come collante sociale e pressione all’acquisto, spingendo i consumatori-utenti a fare sempre di più di chi gli sta intorno.
Ma non è questo che ha sollevato le proteste: il problema è legato piuttosto alla questione della manipolazione approntata – se pur con “minimo impatto” e relativamente ad una “piccola percentuale” – dal social network sulle informazioni visualizzate dai suoi utenti, e non sembra costituire una differenza il fatto che il tutto sia stato fatto con fini apparentemente scientifici. Essere cavia per un test, inconsapevole, non è qualcosa che un utente possa digerire facilmente: Facebook non pare averne tenuto conto, evitando di informare gli interessati oggetto della sperimentazione all’epoca dei fatti.
Claudio Tamburrino