Facebook analizza i messaggi scambiati fra utenti per distillare dati utili all’advertising: questa pratica, nel mirino di un manipolo di utenti statunitensi, merita di essere analizzata di fronte al tribunale che determinerà la sorti della class action che il social network aveva cercato di far archiviare.
La denuncia era stata depositata nei mesi scorsi da due utenti che contestavano al social network l’abitudine di scandagliare i messaggi privati per rinvenire link a siti terzi, trasformandoli in “mi piace”: la pratica, resa nota da un ricercatore di sicurezza nel 2012, era stata bollata dal social network come un bug nei plugin ospitati altrove e subito accantonata. Ma l’accusa non si era limitata a denunciare questo tipo di operazione: nel mirino, anche la semplice analisi dei messaggi privati , utile a studiare gli utenti e le loro preferenze con maggiore precisione e a blandire gli inserzionisti con target mirati. Secondo gli utenti che hanno sporto denuncia, si tratterebbe di intercettazione ai sensi del Wiretap Act statunitense.
L’accusa, analoga a quella formulata nei confronti di Google e Yahoo per i rispettivi servizi di posta elettronica, era stata fronteggiata da Facebook con le stesse istanze richiamate da Google e Yahoo: per chiedere l’archiviazione del caso il social network, oltre ad assicurare di aver interrotto la trasformazione dei link in like anni or sono, ha difeso l’analisi dei messaggi privati riconducendola alla necessità di assicurare ai propri utenti la massima sicurezza da spam e contenuti malevoli e ad “ordinarie pratiche di business”, indispensabili per fornire i propri servizi e protette da un’ eccezione prevista dall’ Electronic Communications Privacy Act ( ECPA ).
Il tribunale, però, non si è mostrato pienamente soddisfatto delle giustificazioni offerte da Facebook: il social network non sarebbe entrato nei dettagli tecnici dell’analisi dei messaggi né avrebbe fornito informazioni riguardo alle proprie abitudini di tracciamento mirato all’advertising abbastanza chiare da poter escludere che i suoi comportamenti siano riconducibili ad “ordinarie pratiche di business”. Le condizioni d’uso che il social network sottopone ai propri amici , inoltre, secondo il giudice “non stabiliscono che gli utenti abbiano acconsentito alla analisi dei loro messaggi per scopi pubblicitari, e peraltro non fanno alcuna menzione di “messaggi” di alcun tipo”. L’utente, per questo motivo, non potrebbe garantire il pieno e consapevole consenso a prestare le proprie comunicazioni alle analisi del social network in blu.
Se alcune delle accuse sono state deposte, le principali motivazioni dei cittadini che hanno sporto denuncia continuano a pendere sul social network: il giudice ha stabilito che il caso procederà per fare luce sulla questione.
Gaia Bottà