Facebook invita i propri utenti ad alimentare la piattaforma con frammenti di vita, dettagli personali, conversazioni: si tratta di informazioni utili al social network per mirare ai target pubblicitari, si tratta di dati succulenti per le forze dell’ordine che stiano indagando. Facebook ha ora appreso di non poter difendere la privacy dei cittadini di cui macina dati su dati, nel momento in cui le autorità la chiamano in causa per collaborare alle indagini.
Il social network si era mobilitato lo scorso anno in seguito a una richiesta di informazioni da parte di un tribunale di New York, che aveva imposto nel 2013 la consegna di tutti i dati relativi a 381 account, tra email, conversazioni private e fotografie, potenzialmente utili alle indagini per smascherare dei falsi invalidi. Facebook aveva denunciato la sproporzione del mandato: non intendeva fornire dati personali relativi a tanti utenti, peraltro all’oscuro dell’operazione, e solo 62 dei quali raggiunti da accuse concrete. A supporto di Facebook si era dunque schierato un manipolo di colossi dell’IT, potenzialmente esposti ad analoghe richieste, affiancati da associazioni che si battono a tutela dei diritti dei cittadini.
Il tribunale di New York incaricato di valutare il ricorso di Facebook si è ora pronunciato : il social network, così come tutte quelle aziende che conservano e gestiscono dati dei cittadini, non ha voce in capitolo e deve rassegnarsi alla consegna dei dati. Il mandato emesso dalle autorità, a differenza di una subpoena emessa in abito civile, è paragonabile a un mandato di perquisizione, nonostante Facebook non sia passivamente sottoposta ad un controllo ma debba provvedere autonomamente a selezionare e organizzare i dati da fornire. Un mandato di perquisizione, ha sottolineato il tribunale, non si può discutere, non prima che venga messo in atto: sono gli utenti di cui sono stati consegnati i dati, al limite, a potersi rivolgersi a un tribunale per cercare di ottenere la distruzione delle prove raccolte illegittimamente perché non vengano impiegate nelle indagini.
La legge non prevede di poter accogliere le richieste di Facebook, ma il tribunale si mostra in parte solidale con il social network: “la decisione non significa che non comprendiamo le preoccupazioni di Facebook riguardo ai mandati che investano un grande numero di account o riguardo alla possibilità che le autorità conservino i dati per un tempo indefinito”. Si tratta evidentemente di preoccupazioni comprensibili da parte di un’azienda che cerca di difendere i propri utenti dai dati che loro stessi hanno condiviso confidando nella riservatezza del social network, dati che, osserva il giudice “comprendono informazioni personali più intime di quelle che si potrebbero ottenere perquisendo un’abitazione”.
Gaia Bottà