Facebook invita i propri utenti a confidare pensieri e condividere momenti vissuti, a intessere relazioni e conversazioni: il social network vorrebbe poter assicurare a quasi due miliardi di amici che i frammenti di vita che ospita, pur ruminati in funzione pubblicitaria, non finiscano nelle mani di terzi. Ma nulla sembra poter assicurare rispetto alle esigenze delle forze dell’ordine, per cui questi dati costituiscono prove a supporto delle indagini.
Era il 2014 quando Facebook aveva preso posizione rispetto a una richiesta di informazioni formulata da un tribunale di New York l’anno precedente, con cui imponeva la consegna di tutti i dati relativi a 381 account , post, foto e conversazioni utili a delle indagini volte a smascherare dei falsi invalidi alle dipendenze dello stato. Il social network, supportato da altri intermediari dell’IT accomunati dal problema e da associazioni che si battono a favore dei diritti dei cittadini, pur avendo consegnato i dati alle forze dell’ordine aveva denunciato la sproporzione tra l’efficacia della richiesta e la grave violazione della privacy di tutti gli utenti che era stata costretta ad esporre.
Dopo una prima risposta negativa da parte della giustizia statunitense, e dopo la condanna per truffa di 62 dei 134 utenti per cui le autorità avevano aperto un fascicolo, Facebook era ricorsa in appello, ma è tornata a scontrarsi con il veto del sistema giudiziario.
Come in occasione del precedente ricorso, la corte ha emesso una sentenza a sfavore delle rimostranze del social network: i giudici, si afferma in sostanza, non possono riscrivere una legge che non consente di ridiscutere un mandato nel momento in cui un processo sia già stato avviato. Facebook avrebbe dovuto esprimere la propria posizione nel momento in cui aveva ricevuto la richiesta di consegnare i dati, e solo in quella situazione avrebbe potuto metterne in discussione la legalità.
Facebook si deve dunque rassegnare alla rigidità delle procedure, ma al social network è stato riconosciuto di aver portato alla luce “nuove ed importanti questioni relative al diritto alla privacy riconosciuto dalla Costituzione e al diritto a non piegarsi a perquisizioni e sequestri non ragionevoli”. Peraltro, si sottolinea in una delle opinioni emesse dai giudici incaricati di valutare il caso, la richiesta delle forze dell’ordine ha obbligato il social network a fornire informazioni su account di studenti, con ogni probabilità estranei alla truffa e, data la natura relazionale della piattaforma, a “fornire contenuti condivisi da utenti che non sono stati nominati nel mandato relativo ai 381 account”, come amici, familiari e semplici contatti, e “soggetti che potrebbero non aver nemmeno conosciuto nessuno dei 381 utenti nominati nel mandato, ma hanno avuto la sfortuna di postare sulla timeline di uno di loro, di caricare la foto di uno di loro o semplicemente di appartenere a uno dei gruppi a cui uno di loro era affiliato”.
Data la vastità delle richieste, si rileva inoltre, “obbligare un’azienda a rivelare informazioni private dei propri utenti potrebbe gettare cattiva luce sul suo brand o allontanare i suoi utenti attuali e potenziali”: abusare delle richieste, in sostanza, potrebbe danneggiare l’azienda , un effetto che andrebbe altresì valutato in prospettiva dell’effettiva utilità delle informazioni che la si costringe a consegnare.
Il social network, deluso dall’esito del ricorso, si è detto “incoraggiato” dalle argomentazioni che sono state espresse a suo favore, e a favore della privacy dei netizen. Sta ancora valutando se portare il caso di fronte ad una corte federale.
Gaia Bottà