Tanto tuonò che piovve . Facebook, colosso tra i social network, è stato trascinato in aula in una class action avviata da un gruppo di suoi iscritti. Spetterà ad un giudice di San Josè il compito di stabilire se la piattaforma di Mark Zuckerberg abbia violato la privacy degli utenti in blu, intraprendendo attività di tracciamento delle condivisioni a mezzo like tra il maggio 2010 e il settembre 2011 .
Mentre gli occhi dell’opinione pubblica sono fissi sulla IPO miliardaria , il social network di Menlo Park vive il suo nuovo dramma in salsa legalese. La class action californiana ha raccolto più di 20 casi relativi alle presunte attività di tracciamento degli utenti, anche in seguito alle operazioni di logout da parte dei profili in blu .
E c’è chi ha subito sottolineato come la causa collettiva contro Facebook vada al di là della semplice richiesta di danni. Nelle mani del giudice californiano ci sarebbe infatti un cruciale capitolo nella delicata storia del rapporto tra piattaforme digitali e diritto alla riservatezza. Una decisione che – almeno secondo gli esperti – potrebbe avere profonde implicazioni sul modo di fare business nell’ecosistema del web.
Secondo l’accusa, il sito statunitense avrebbe violato i dettami legislativi dello U.S. Wiretap Act , legge nazionale che regola le intercettazioni nelle varie forme di comunicazione. Facebook avrebbe succhiato vaste quantità di informazioni personali per poi guadagnare in termini di advertising , praticamente vendendo i suoi utenti oltre che spiandoli. Immediata la risposta legale del sito, che ha parlato di una causa senza alcun fondamento.
Al di là dei significati reconditi, i danni da risarcire per il social network potrebbero essere decisamente consistenti. Secondo lo U.S. Wiretap Act, il social network potrebbe pagare fino a 10mila dollari per ciascun profilo sottoposto ad intercettazione . Moltiplicato per 800 milioni di utenti, la sanzione arriverebbe a 15 miliardi di dollari. Da sommare al divieto di raccogliere dati personali da vendere ai signori della pubblicità.
Mauro Vecchio