Nel 2016 Facebook ha segretamente dato il via al “Progetto Ghostbusters“, con un chiaro riferimento al logo di Snapchat, simile appunto a un fantasma. L’iniziativa mirava ad intercettare e decifrare le comunicazioni tra l’app e i suoi server, con l’intento di capire le abitudini e i comportamenti degli utenti della piattaforma rivale. Un progetto controverso che getta nuove ombre sulle pratiche di raccolta dati di Facebook.
Questo è emerso da documenti giudiziari recentemente resi pubblici in una causa collettiva tra Meta (la società madre di Facebook) e i consumatori.
Il vantaggio competitivo attraverso la raccolta dati
Facebook voleva capire il comportamento degli utenti su Snapchat per aiutare l’azienda a competere meglio con la piattaforma concorrente. Per farlo, ha sviluppato una tecnologia speciale che aggirava la crittografia delle app dei concorrenti, inclusa Snapchat.
Il Progetto Ghostbusters faceva parte del programma In-App Action Panel (IAPP) dell’azienda. Utilizzando Onavo, un servizio simile a una VPN acquisito nel 2013 da Facebook, l’azienda è riuscita ad accedere alle informazioni sulle attività degli utenti non solo su Snapchat, ma anche su YouTube e Amazon. Onavo, infatti, ha permesso di leggere tutto il traffico di rete dei dispositivi prima che venisse crittografato e inviato su Internet.
Il documento include anche e-mail interne di Facebook dove si discute del progetto. All’interno di Facebook non c’era consenso sul fatto che il progetto Ghostbusters fosse una buona idea. Alcuni dipendenti, tra cui Jay Parikh, l’allora responsabile dell’ingegneria delle infrastrutture di Facebook, e Pedro Canahuati, l’allora responsabile dell’ingegneria della sicurezza, avevano espresso la loro preoccupazione.
Nonostante le obiezioni sollevate dai suoi stessi dipendenti, Mark Zuckerberg ha approvato il progetto sottolineando l’impatto positivo che avrebbe potuto avere sulla crescita dell’azienda: “Data la velocità con cui stanno crescendo [Snapchat], sembra importante trovare un nuovo modo per ottenere analisi affidabili su di loro. Forse dobbiamo creare dei pannelli o scrivere un software personalizzato“.
Nel 2020, Sarah Grabert e Maximilian Klein hanno intentato una class action contro Facebook, sostenendo che l’azienda ha mentito sulle sue attività di raccolta dati e ha sfruttato i dati “estratti in modo ingannevole” dagli utenti per identificare i concorrenti e poi combattere ingiustamente queste nuove aziende.
Un portavoce di Amazon ha rifiutato di commentare sulla questione mentre Google, Meta e Snapchat non hanno risposto alle richieste di commento.