La decisione assunta da Facebook nei confronti di alcuni recenti post di Trump, confermata e ribadita ieri dal numero uno Mark Zuckerberg nel nome della libertà di espressione, è quella che porta a non applicare alcuna forma di fact checking né di limitazione agli interventi del Presidente USA, indipendentemente dalla loro natura o dal loro contenuto. Una linea criticata da più parti, accolta con disappunto anche dallo staff del social network. Al coro di proteste si uniscono decine di ex collaboratori.
I post di Trump e la posizione di Facebook
Lo fanno con una lettera aperta (riportata più avanti in forma integrale e tradotta) firmata da decine di dipendenti della prima ora, alcuni dei quali hanno contribuito a rendere la piattaforma ciò che è oggi. I post in questione sono quelli riportati di seguito: il primo riguarda un presunto legame tra il voto per corrispondenza e brogli elettorali.
There is NO WAY (ZERO!) that Mail-In Ballots will be anything less than substantially fraudulent. Mail boxes will be…
Pubblicato da Donald J. Trump su Martedì 26 maggio 2020
Il secondo fa invece riferimento alla volontà di usare la forza per sedare le manifestazioni andate in scena un po’ ovunque negli Stati Uniti in seguito all’uccisione di George Floyd da parte di un agente di polizia.
I can’t stand back & watch this happen to a great American City, Minneapolis. A total lack of leadership. Either the…
Pubblicato da Donald J. Trump su Giovedì 28 maggio 2020
La lettera degli ex dipendenti FB a Zuck sui post di Trump
“La leadership di Facebook deve riconsiderare le sue policy in merito ai discorsi politici, iniziando con l’eseguire il fact checking degli esponenti ed etichettando in modo esplicito i post dannosi.
Come impiegati della prima ora nei team di tutta l’azienda abbiamo redatto gli originali Standard della Community, contribuendo al codice di prodotti che hanno dato voce alle persone e agli esponenti pubblici, aiutando a creare una cultura aziendale incentrata su connessione e libertà di espressione.
Siamo cresciuti in Facebook, ma non ci appartiene più.
La Facebook a cui ci siamo uniti realizzava prodotti per dare potere alle persone e policy per proteggerle. L’obiettivo era consentire la massima libertà d’espressione possibile a meno che questo non comportasse un danno esplicito. Spesso ci siamo trovati in disaccordo, ma tutti abbiamo capito che proteggere le persone era la cosa giusta da fare. Ora sembra che questo impegno sia venuto meno.
Non lavoriamo più su Facebook, ma non lo rinneghiamo. Al tempo stesso però non lo riconosciamo più. Siamo ancora orgogliosi di ciò che abbiamo costruito, grati per l’opportunità e speranzosi per la forza positiva che può diventare. Ciò però non significa dover restare in silenzio. Abbiamo infatti la responsabilità di farci sentire.
Oggi la leadership di Facebook interpreta la libertà di espressione come se comportasse il non dover far nulla o quasi nulla per interferire nella discussione politica. Ha deciso che le autorità elette possono essere sottoposte a uno standard meno restrittivo rispetto a coloro che governano. Un set di regole per voi, un altro per ogni politico, dal vostro sindaco al Presidente degli Stati Uniti. Questo espone a due problemi fondamentali.
Per prima cosa il comportamento di Facebook non è in linea con l’obiettivo dichiarato di evitare qualsiasi censura politica. Facebook già agisce, come Mark Zuckerberg ha ribadito venerdì, come “arbitro della verità”. Monitora le discussioni ogni volta che aggiunge un avviso ai link, quando abbassa il rating dei contenuti per ridurne la diffusione ed esegue il fact checking di quanto pubblicato da chi non è un politico.
Questo è un tradimento per gli ideali proclamati da Facebook. L’azienda a cui ci siamo uniti ha dato alla voce di ogni individuo lo stesso peso di quella dei loro governi, proteggendo chi ha meno potere anziché i potenti.
Ora Facebook ha capovolto il proprio obiettivo. Dichiara che fornire un avviso in merito al discorso di un politico è inappropriato, ma rimuovere il contenuto di un cittadino è accettabile, anche se entrambi dicono la stessa cosa. Questa non è una posizione nobile per la libertà. È incoerente e, peggio, è da codardi. Facebook dovrebbe sottoporre i politici a standard più rigorosi rispetto a quelli dei loro elettori.
Come secondo punto, dalla nascita di Facebook, i ricercatori hanno compreso molto a proposito della psicologia di gruppo e delle dinamiche per la persuasione di massa. Grazie al lavoro svolto da Dangerous Speech Project e tanti altri sappiamo che la forza delle parole aumenta la possibilità che si verifichino violenze. Sappiamo che i discorsi di un potente hanno un impatto maggiore. Stabiliscono norme, permessi e implicitamente autorizzano la violenza, tutto questo reso ancora peggiore dall’amplificazione degli algoritmi. La leadership di Facebook si è confrontata con esperti, avvocati, organizzazioni, eppure ancora sembra impegnata nel garantire ai potenti la piena libertà.
Dunque, cosa ne facciamo? Se tutto ciò che dicono i politici è di pubblico interesse e tutto ciò che è di pubblico interesse è inviolabile, non c’è alcun limite che le persone più potenti del mondo non possano oltrepassare sulla piattaforma più grande al mondo o almeno che la piattaforma non imponga di non oltrepassare.
Il post di venerdì del Presidente Trump non solo minaccia la violenza dello stato contro i suoi cittadini, ma manda anche un segnale ai milioni che prendono spunto dalle parole del Presidente. La policy di Facebook permette a quel post di rimanere dov’è. In un’epoca di sparatorie in diretta streaming, Facebook dovrebbe conoscere il pericolo che questo comporta meglio di chiunque altro. La retorica di Trump, immersa nella storia del razzismo americano, ha preso di mira le persone alle quali Facebook non avrebbe consentito di rispondere.
È questo è il sentimento che motiva questa lettera. Siamo devastati nel vedere qualcosa che abbiamo costruito e qualcosa in cui abbiamo creduto per rendere il posto un mondo migliore perdere la propria strada in modo così profondo. Capiamo che è difficile rispondere a domande di tale importanza, ma è stato difficile anche costruire la piattaforma che ha portato a questi problemi. C’è la responsabilità di risolverli e risolvere questi problemi è una cosa che Facebook è in grado di fare.
Ai dipendenti che al momento stanno protestando: vi vediamo, vi supportiamo e vogliamo aiutarvi. Speriamo che possiate continuare ad appendere un poster in ogni ufficio di Facebook: “Cosa faresti se non avessi paura?”.
A Mark: sappiamo che valuti approfonditamente questi problemi, ma sappiamo anche che Facebook deve lavorare per riguadagnare la fiducia del pubblico. Facebook non è neutrale, non lo è mai stata. Rendere il mondo più aperto e connesso, rafforzare le comunità, dare voce a tutti, non sono idee neutrali. Il fact checking non è censura. Etichettare un’uscita come violenta non è autoritarismo. Per favore riconsidera la tua posizione.
Vai avanti e sii coraggioso.”
La libertà di espressione e le Presidenziali 2020
Dai vertici di Facebook non è giunta alcuna replica. Concludiamo ricordando che nei giorni scorsi l’inquilino della Casa Bianca e il CEO del social network hanno discusso della questione in una telefonata il cui esito è stato definito soddisfacente da entrambe le parti. Considerando l’appuntamento con le Presidenziali 2020 fissato per l’autunno, il tema è destinato a tenere banco da qui ai prossimi mesi.