Sono necessarie delle ragionevoli motivazioni per infiltrarsi nella vita privata di un privato cittadino, per seguirlo in ogni suo spostamento, per racimolare informazioni sulle sue abitudini e distillarne informazioni sensibili. Alle forze dell’ordine statunitensi è necessario il mandato del giudice per procedere a questo tipo di monitoraggio.
A stabilirlo , la United States Court of Appeals for the District of Columbia Circuit , nell’ambito di un caso che si è dipanato sullo sfondo di un traffico di droga. Gli agenti dell’FBI, si legge nella decisione dei giudici, avevano individuato il sospetto, tale Lawrence Maynard: avevano provveduto a installare un radiotrasmettitore sulla Jeep del cittadino, parcheggiata in un’area privata. Ne avevano seguito i movimenti per un mese: con intervalli di localizzazione a scadenza di 10 secondi , con una precisione di circa 30 metri. Il tutto, parrebbe , senza aver ottenuto un mandato valido per procedere.
Era stata ricostruita la ragnatela dei tracciati basata sulle abitudini di spostamento di Maynard e del suo complice, si erano raccolti indizi e prove, gli uomini erano stati condannati. Ma i due erano ricorsi in appello, sostenuti anche da associazioni a tutela del cittadino quali ACLU e EFF: questo tipo di monitoraggio, per di più praticato senza alcun tipo di autorizzazione da parte dell’autorità giudiziaria, costituirebbe una violazione della privacy, in quanto consentirebbe di insinuarsi in aspetti della vita di un cittadino che esulano rispetto alla raccolta delle prove. Una procedura che rivela con nettezza informazioni sensibili , che rischia di sconfinare nell’abuso.
Le forze dell’ordine giustificavano però questa modalità di indagine con il fatto che i movimenti dell’indagato avvenissero in ogni caso sotto gli occhi di tutti: l’indagato non avrebbe nulla da rivendicare poiché ha zigzagato in luoghi pubblici, il tracciamento a mezzo GPS sarebbe dunque assimilabile al pedinamento, al monitoraggio condotto con dispositivi di tracciamento non GPS.
Ma il giudice della corte d’appello si è schierato a favore dei cittadini condannati e delle associazioni che li hanno supportati: l’uomo che era stato condannato come complice di Maynard è stato scagionato, in quanto le prove raccolte erano in larga parte basate sul monitoraggio GPS. Il tracciamento a mezzo GPS, ha spiegato la corte, si configura come molto più invasivo rispetto ad altre pratiche di sorveglianza: la globalità dei dati raccolti , una volta assemblata e ricostruita, può mostrare molto della vita di un cittadino. “Una cosa è un passante che osserva o segue qualcuno in un singolo tragitto verso un negozio o nel proprio ritorno a casa – ha spiegato il giudice Douglas H. Ginsburg – È invece totalmente diverso, per quell’estraneo, seguire quella traccia il giorno successivo e quello dopo ancora, di settimana in settimana, braccando la sua preda fino a che non ha identificato tutti i luoghi, le persone, i passatempi e i lavori che compongono le routine private di quella persona”.
Con un tracciamento GPS costante e prolungato, sottolinea EFF, è possibile sconfinare anche accidentalmente nella sfera più strettamente privata di una persona: è possibile, ad esempio, raccogliere informazioni sulle sue abitudini sessuali monitorandone le frequentazioni, è possibile tracciarne un quadro clinico qualora frequentasse gli studi di specialisti, è possibile sapere molto sui suoi credo politici e religiosi. Per questo motivo, per scongiurare abusi da parte delle forze dell’ordine, sarebbe necessario che fosse un giudice ad autorizzarne l’impiego.
Ma se la corte del District of Columbia ha deciso che le intrusioni nella privacy del cittadino devono passare dal mandato, l’atteggiamento degli States non è uniforme: lo scorso anno una corte del Wisconsin aveva stabilito che la sorveglianza a mezzo GPS possa essere disposta senza esporre all’autorità giudiziaria delle ragionevoli motivazioni.
Gaia Bottà