Il tribunale d’appello di Parigi ha condannato Google per diffamazione: oggetti del contendere, il servizio Google Suggest e la reputazione del querelante, in passato coinvolto in fatti che lo hanno visto condannato per corruzione di minori.
Nella sentenza dell’8 settembre 2010 il giudice ha rilevato che l’azienda statunitense è civilmente responsabile dei termini suggeriti agli utenti nel momento della digitazione di una query (in questo caso il nome del querelante) tramite Google Suggest, se tale associazione di idee proposte è offensiva o diffamante nei confronti dei termini coinvolti.
Per casi simili Google è stata chiamata in Tribunale anche in Svezia ed è già stata condannata in Brasile e assolta nel Regno Unito .
Il Tribunal de Grande Instance ha deciso per la condanna per diffamazione di Google e il suo CEO Eric Schmidt con l’ingiunzione ad eliminare qualsiasi tipo di associazione tra il nome del querelante e i termini “violenza”, “condannato”, “satanista”, “prigione” e “stupratore”, pena un’ammenda di 500 euro per il mancato rispetto di ciascuna richiesta.
Non è stata accolta la tesi difensiva di Google per cui i termini sono associati da un algoritmo e non da una scelta discrezionale umana : secondo il giudice Google non sarebbe riuscita a dimostrare che le parole suggerite siano solo il frutto “di un mero calcolo statistico di tutte le precedenti ricerche con gli stessi termini”. Ha così peraltro confermato un’ altra sentenza francese che aveva affrontato i medesimi temi, condannando allo stesso modo Google.
Dopo aver respinto la difesa basata sulla “neutralità” del calcolo, l’ipotesi di reato di diffamazione si sarebbe concretizzata in quanto i suggerimenti del motore di ricerca hanno creato pregiudizio al querelante sia perché rappresentano termini in grado di attirare la curiosità degli utenti sia perché creano una naturale associazione di idee con il soggetto.
Proibendo “le parole suggerite”, il giudice ha voluto chiarire l’intenzione di non voler bloccare la ricerca stessa o la possibilità da parte dell’utente di compierne una con i termini incriminati: non si vieta la libertà di alcuno di compiere una ricerca del genere, ma si vuole scongiurare che tale tipo di suggerimenti attirino attenzione anche quando il netizen non direttamente interessato, causando una sorta di effetto virale ai danni del querelante.
Claudio Tamburrino