L’Alta Corte di Parigi ha ordinato a Google, Microsoft e Yahoo! di de-indicizzare 16 siti di streaming video accusati di violare il diritto d’autore dei produttori cinematografici .
La sentenza riguarda un caso iniziato nel dicembre 2011: al giudice è stato richiesto di imporre la rimozione dai principali motori di ricerca degli indirizzi dei portali Allostreaming, Fifostream e DPstream e di siti mirror ad essi collegati. Ad accusarli di violazione di proprietà intellettuale erano l’ Association des Producteurs de Cinéma (APC), un gruppo che rappresenta più di 120 aziende detentrici di diritti tra cui Paramount e Sony, la Fédération Nationale des Distributeurs de Films (FNDF) e il Syndicat de l’Edition Vidéo Numérique (SEVN), a cui si è poi aggiunta l’ Union of Film Producers (UPF) e l’ Union of Independent Producers (SPI).
Secondo il giudice di Parigi l’accusa è riuscita a dimostrare che i portali Allostreaming, Fifostream e DPstream fossero “dedicati completamente o quasi alla distribuzione di lavori audiovisivi senza il consenso dei loro creatori” e di conseguenza ha deciso di ordinare agli ISP Orange, Free, Bouygues Télécom, SFR, Numéricable e Darty Télécom di bloccare l’accesso a tali siti, come d’altronde prescritto dalla normativa europea in materia di responsabilità degli intermediari e dall’ articolo L336-2 del codice della proprietà intellettuale francese.
Oltre a questo, poi, il giudice ha ordinato a Google, Microsoft, Yahoo! e all’azienda locale Orange di “prendere tutte le misure necessarie per prevenire ogni riferimento a queste pagine tra le proprie ricerche”. Una misura possibile in base alle disposizioni HADOPI, adottate in Francia nel 2009 e ora in fase di revisione , che nell’attuale interpretazione del tribunale di Parigi – come denuncia Félix Tréguer di La Quadrature du Net – aprirebbe pericolosamente le porte alla censura privata, cioè alla possibilità da parte di privati di chiedere unilateralmente la rimozione di un sito da un motore di ricerca con una semplice accusa di violazione di proprietà intellettuale .
Tréguer considera le disposizioni francesi particolarmente vaghe e quindi facilmente strumentalizzabili, nonché contrarie all’ ultima interpretazione dell’avvocato generale della Corte di Giustizia Europea che ha incoraggiato blocchi a livello IP e DNS invocando al contempo la cautela; dello stesso avviso il Partito Pirata, che teme la possibilità che la sentenza abbia conseguenze tali da portare gli ISP ad analizzare tutto il traffico , magari attraverso misure tecnologiche intrusive come i Deep Packet Inspection . Il tribunale ha infatti lasciato agli operatori la scelta del tipo di misura da adottare .
La sentenza specifica inoltre che a dover pagare per l’implementazione dei filtri siano i detentori dei diritti : alla richiesta delle major che fossero gli ISP e i motori di ricerca a sostenere tali spese, il giudice ha risposto picche. La sentenza, in ogni caso, è stata accolta con entusiasmo dai detentori dei diritti che hanno sottolineato come sia importante la “collaborazione degli ISP e dei motori di ricerca nella protezione delle opere dell’ingegno”.
Il giudice, d’altronde, sembra assecondare la volontà dei detentori dei diritti e l’orientamento di un numero sempre maggiore di autorità nazionali, Italia compresa, che chiedono l’intervento di intermediari come motori di ricerca e servizi di pagamento per fare terra bruciata attorno alle attività che traggono profitto dalla condivisione illecita: questo potrebbe però significare andare oltre la disciplina degli intermediari europea che prevede la responsabilità solo a posteriori delle piattaforme che ospitano i contenuti incriminati.
Google – che ribadisce il suo interesse a dialogare con gli aventi diritto per trovare una soluzione migliore alla lotta alla pirateria – si è detto contrariato dalla sentenza: il motore di ricerca già collabora con i detentori dei diritti rimuovendo URL che puntano alle pagine dedicate alla condivisione di singoli contenuti che violano il diritto d’autore. Se la sentenza francese facesse scuola, imponendo invece la de-indicizzazione di interi domini, il motore di ricerca si troverebbe a dover operare in maniera meno raffinata, complicando l’accesso a tutti i contenuti ospitati su quei domini, anche quelli legali.
Claudio Tamburrino