Le autorità statunitensi ed europee si muovono contro i rischi – sempre presenti – del behavioral advertising , del tracciamento delle attività online attraverso cookie e altri “brandelli” delle informazioni di navigazione sparse dall’utente per tutto il web. Negli USA la discussa pratica fa muovere la Federal Trade Commission , apparentemente intenzionata a favoreggiare un’imposizione legale per l’implementazione di una funzionalità di “opt-out” volontario all’interno dei browser web.
FTC propone una ” Do Not Track List “, un database in grado di fare per l’advertising e il tracciamento online quella che la Do Not Call List dovrebbe fare per il marketing telefonico: selezionando l’apposita opzione disponibile nel browser web, l’utente comunicherebbe al sito web corrente la sua indisponibilità a fornire le proprie abitudini di navigazione ai fini di un advertising più corrispondente alle sue caratteristiche specifiche.
La proposta di FTC sposa in pieno il progetto Do Not Track , messo in piedi da alcuni ricercatori della Stanford University con lo scopo di favorire l’opt-out dal behavioral advertising per mezzo di “adesioni volontarie, auto-regolamentate dall’industria o previste dalla legge di stato o federale”. Quelli di Stanford dicono di non voler prendere posizione in merito alle alternative indicate, ma FTC invoca direttamente il Congresso per l’implementazione della sua Do Not Track List nell’ordinamento legale statunitense.
Senza un’imposizione legale, suggerisce la commissione federale, ben poco si potrebbe fare per costringere chi realizza browser web a implementare la funzionalità nei suoi prodotti. È altamente improbabile , infatti, che le grandi aziende che hanno fatto dell’advertising la spina dorsale del proprio business (Google e Facebook in primis) decidano di adottare la lista in maniera volontaria, per non parlare della difficoltà di stabilire quali e quanti dati escludere dalla comunicazione tra client e server web “per legge”.
La FTC dovrebbe pensare ad affrontare problemi molto più urgenti e importanti di un “innocuo” tracciamento a fini pubblicitari, suggerisce qualcuno, come l’uso e l’abuso delle più elementari regole della privacy sperimentati in questi mesi e anni da parte di grandi aziende di rete come Google e Facebook.
Sia come sia, la volontà di imporre una difesa legislativa contro il tracking online riscuote un buon successo anche sul Vecchio Continente: il Ministro degli Interni tedesco Thomas de Maizière parla della necessità di “un approccio più ampio” che comprenda l’intera Internet e di restringere “la distribuzione mirata di profili personali”, mentre il gruppo di lavoro Articolo 29 chiede ai network pubblicitari informazioni su come intendano conformarsi alle nuove norme sulle telecomunicazioni approvate in Europa.
Alfonso Maruccia