Il Wall Street Journal l’ha battezzata come la “Great Mining Migration“, espressione sufficientemente chiara per descrivere quanto sta succedendo in Cina dopo la stretta estiva sulle criptovalute. Il WSJ, nella fattispecie, fa riferimento alla Bit Digital, la quale ha improvvisamente tentato di esportare 20 mila server fuori dalla Grande Muraglia, nel tentativo di portare altrove delle attività che erano ormai divenute “indesiderate” in Cina.
Criptovalute, fuga dalla Cina
Il mining in Cina non solo non rende più, ma diventa altresì pericoloso: una sentenza delle ultime ore considera il mondo delle criptovalute fuori da ogni tutela di legge, il che mette aziende particolarmente strutturate in grossa difficoltà. Chi operava nel mining, infatti, ha oggi in mano strumentazioni ad alto valore, su cui sono stati fatti importanti investimenti ed il cui trasporto non è certo semplice. Nel caso della Bit Digital le prime esportazioni sono partite in direzione Nebraska, Georgia, Texas e Canada: ci sono asset milionari da mettere al sicuro e da riportare quanto prima alla piena operatività.
Come noto, il meccanismo alla base del mining di Bitcoin rende progressivamente più competitivo il meccanismo di produzione delle criptovalute e, a tendere, soltanto quanti andranno ad operare con costi minimali potranno sostenere la corsa. La Cina, che aveva inizialmente tollerato tali attività – particolarmente energivore – ha infine portato avanti la stretta e ora il mining guarda giocoforza altrove per cercare nuove frontiere di investimento. In futuro è probabile che i nuovi bitcoin nasceranno da energia USA, Kazaka o Russa, ma gli alti e bassi del prezzo del petrolio (ancor oggi alla base della produzione) rendono particolarmente volubile la situazione. Il prezzo del Bitcoin, nel frattempo, è tornato a fare capolino sopra i 50 mila dollari e questo potrebbe riportare interesse nel mining: non è questione di “se”, ma di “dove”.