Washington – Domenica scorsa Bill Gates ha firmato un’editoriale sulle pagine del Washington Post completamente dedicato alla competitività. Il core-think del patron di Microsoft è che l’innovazione è senza ombra di dubbio il fattore critico per la crescita economica. “L’innovazione è la fonte della leadership economica degli Stati Uniti e la base per la nostra competitività nell’economia globale. Gli investimenti governativi nella ricerca, le solide Leggi sulla proprietà intellettuale e l’efficienza dei mercati di capitale sono alcune fra le ragioni per cui l’America, per decenni, si è distinta nella trasformazione di nuove idee in business di successo”.
L’innovazione professata da Gates non prescinde dalla forza lavoro: quegli scienziati e ingegneri che si sono formati nelle università statunitensi rappresentano l’elemento chiave per il presente e il futuro. “Ma il nostro status come centro mondiale delle nuove idee non può essere dato per scontato. Altri governi hanno scoperto il ruolo vitale che ha l’innovazione nella competitività”. A suo parere l’apporto di altri paesi, come gli emergenti Cina e India, non deve essere considerato un male: l’acquisizione diffusa di competenze alimenta l’innovazione e quindi non può che dare beneficio a tutto il mondo.
Gates, però, si aspetta di più dal suo paese. Desidera – scrive – che rimanga competitivo e che possa disporre delle menti più brillanti. Per raggiungere questi obiettivi vi sarebbero almeno due questioni da affrontare: la formazione scolastica e una migliore politica dell’immigrazione.
“Dobbiamo chiedere scuole più solide in modo che i giovani americani possa entrare a far parte della forza lavoro con la Matematica, la Scienza e l’abilità di problem-solving che richiede l’economia della conoscenza. Dobbiamo anche agevolare gli scienziati ed ingegneri stranieri che vogliono lavorare nelle aziende statunitensi”, ha sottolineato Gates.
L’eccellenza per William H. è rappresentata da istituti come High Tech High di San Diego. Una struttura che prepara al college e vanta un 100% di ammissione dei suoi alunni nelle università – contro la media nazionale del 17%. The Register , però, quasi a voler mettere il dito nella piaga, ieri ha reso noto che il suddetto istituto chiuderà a breve per mancanza di fondi e di alunni – il sostegno iniziale della Bill and Melinda Gates Foundation forse non è stato sufficiente.
Per quanto riguarda invece la questione dell’immigrazione qualificata, Gates si è apertamente schierato per l’incremento del numero di visti temporanei ( H-1B ) concessi ogni anno. Attualmente ne sono previsti non più di 65 mila per gli stranieri; un numero che striderebbe con le esigenze del comparto informatico (100 mila nuovi posti all’anno).
“I lavoratori temporanei aspettano cinque anni o più per una green card . Durante questo periodo non possono cambiare lavoro, il che limita le loro opportunità di contribuire al proprio successo e alla crescita economica”, sostiene Gates. A questo punto si pone però anche il problema della competizione con la forza lavoro statunitense. A suo dire, Microsoft protegge gli interessi di tutti rispettando tetti salariali comuni: nessuna differenza di compenso fra stranieri e locali con le medesime competenze.
Teoria che viene però sconfessata da Robert Oak, attivista anti-outsourcing di Noslaves.com , che ritiene di aver fatto finalmente luce sugli stipendi della manovalanza d’importazione. Gates, in un intervista dello scorso marzo asseriva che i suoi dipendenti stranieri d’alto lignaggio, con Visa H1-B, sono pagati come i locali, quindi a partire da 100 mila dollari all’anno. Secondo Oak, però, i dati divulgati dalla stessa Microsoft per l’ottenimento delle green card confutano le cifre: solo il 3,3% della forza lavoro straniera raggiungerebbe cifre di quel genere; la maggioranza si posizionerebbe nettamente al di sotto. Ars Technica ha pubblicato al riguardo un articolo esaustivo. In linea di massima Oak è convinto che la questione dovrebbe essere affrontata con maggiore delicatezza, dato che uno specialista straniero può essere costretto ad accettare condizioni salariali sfavorevoli anche solo per ottenere l’agognata green-card. “In barba” alla competitività del mercato interno del lavoro.
Dario d’Elia