Il mittente è Sammy Ketz, reporter di guerra per AFP, e i destinatari sono gli Eurodeputati che a breve dovranno nuovamente trovarsi di fronte al tema della riforma del copyright. Una lettera aperta con parole al vetriolo che parte dall’esperienza personale di chi lavora quotidianamente nel pericolo, ma che presto si piega ad una accusa diretta contro Google e Facebook.
La lettera di Sammy Ketz
Si tratta di una lettera destinata a lasciare il segno ed a far discutere: in primis poiché è scritta con l’evidente passione di chi nel Giornalismo vede ancora un principio alto e sacrale, spirito che in troppi (anche e soprattutto tra chi ha in mano un tesserino dell’Albo) hanno perso da tempo; inoltre perché si innesta in un argomento estremamente delicato, destinato presto a tornare all’ordine del giorno e pronto nuovamente ad innescare grandi polemiche; infine perché nella disamina ci sono grandi verità combinate in modi non del tutto condivisibili.
Ma soprattutto si tratta di una lettera che ha un merito su tutti: riaccende il dibattito sul tema della riforma del copyright prima che ci si trovi nuovamente a discutere della stessa nell’urgenza di una decisione. Questo non dovrà accadere: il tema è caldo e merita tanto l’approfondimento delle parti, quanto di silenzi di riflessione, ma sicuramente non della fretta di un voto a tutti i costi. Una lettera, quindi, appassionata e stilata con giusto tempismo: meritevole, a prescindere. Qui disponibile in versione completa, della quale se ne consiglia la lettura per l’emozionante lista di dettagli che il ricordo delle zone di guerra trasmette.
La lettera porta avanti una tesi di per sé semplice: il giornalismo di guerra sta morendo perché stanno scomparendo i reporter di guerra. E il reporter di guerra scompaiono poiché non ricevono più adeguato supporto dai propri editori, le cui dinamiche commerciali non prevedono investimenti in aree poco strategiche come quelle dei racconti dalle frontiere in guerra. Troppi i rischi, troppi i costi e ben poco l’utile: meglio cercare ambiti di maggior lucro, perché in tempi di vacche magre occorre pur far sopravvivere il prodotto editoriale. Ed è in questo che Sammy Ketz si schiera contro i big del Web: la loro perversa ricerca del gratis ha sconvolto le dinamiche proprie del giornalismo, ha annichilito la qualità ed ha costretto gli editori sulla difensiva. Parte da loro, quindi, il ciclo vizioso che ha portato il giornalismo (soprattutto quello di guerra) a soffocare.
Tutta colpa del Web?
C’è tuttavia un passaggio sul quale occorre riflettere, poiché rappresenta in questa lettera un balzo logico un po’ più avventuroso di tutti gli altri: secondo Ketz, infatti, è necessario sostenere la legge sulla riforma del copyright poiché in grado di costruire un argine che metta il Web con le spalle al muro – tutelando il giornalismo.
Ricordate che i dipendenti di Facebook e Google non sono giornalisti non producono contenuti editoriali. Ma sono pagati per gli annunci pubblicitari connessi ai contenuti che producono i giornalisti. […] È tempo di reagire. Il Parlamento Europeo deve votare in massa in favore del “neighbouring rights” per la sopravvivenza della democrazia e di uno dei suoi più importanti simboli: il giornalismo.
Ketz ricorda che Facebook registra 16 miliardi di profitti nel 2017 e Google 12,7 miliardi: “Semplicemente paghino la loro parte. In questo modo i media sopravviveranno e i titani di Internet avranno contribuito alla diversità ed alla libertà di quel giornalismo che dicono di supportare”. Tra i firmatari della lettera figurano centinaia di giornalisti, tra i quali molti del gruppo GEDI (La Stampa), ove si ricorda in proposito: “I big di Internet quei contenuti li monetizzano. Si tratta solo di condividere una parte del margine con chi fa la parte difficile del lavoro. E di fare attenzione a lasciare la libertà di condividere quando non c’è scopo di lucro”.
La domanda che occorre porsi è però la seguente: la legge europea di riforma del copyright è realmente il luogo giusto ove l’editoria tradizionale può negoziare il proprio ruolo nei confronti dei big? Se diamo per assodato che la situazione sia realmente sbilanciata nei confronti delle piattaforme, e che queste ultime abbiano un debito (di riconoscenza, ma non solo) nei confronti di chi costruisce contenuti di qualità, perché poi si cerca nella normativa sul copyright la ricetta unica e definitiva per risolvere un problema ormai resosi cronico da tempo?
Il confronto tra editori e Google è terreno infuocato ormai da molti anni, fin da quando (in primis in Belgio) si iniziò a chiedere a Google News di cambiare le proprie policy retribuendo i giornali per l’uso del loro materiale. Il tira e molla ha portato ad accordi sul campo per i quali da qualche anno Google elargisce fondi in favore dell’innovazione nel giornalismo, ma una lettera di pochi mesi fa già anticipava passo a passo le attuali rivendicazioni di Ketz: la stessa France Press era capofila dell’iniziativa, il cuore del tema erano le difficoltà per i reporter di guerra, la colpa era dei colossi del Web e la soluzione era in nuove regole per la compensazione del copyright. Cambia la firma, passando dall’agenzia al reporter, ma non la sostanza, né tanto meno la strategia.
Il rischio è che si crei nuova confusione da ambo le parti e che la riforma del copyright possa rimanere appesa ad una situazione esterna che sfrutta tale riforma come terreno per lo scontro finale. Le parti in causa decidano come muoversi: il copyright è la chiave dell’intera questione? Una nuova normativa sul copyright salverebbe il Giornalismo senza alcun effetto collaterale? Google e Facebook sono gli aguzzini del giornalismo di guerra? Oppure per ricostruire il giornalismo occorre ragionare su altri tavoli, eventualmente battendo forte i pugni per pretendere un aiuto economico da parte di chi ha (effettivamente) sconquassato gli equilibri – spesso e volentieri facendo spallucce alle legittime richieste di attenzione?
Della riforma del copyright si tornerà a parlarne in Europa nel mese di settembre. La lettera di Sammy Ketz sarà inevitabilmente sul tavolo del dibattito.