Non c’è niente come mancare da una grande città per due o tre anni: ti fa vedere e notare tutte in una volta differenze che, prese a piccole dosi, passerebbero inosservate. Riparto da Milano dopo esservi tornato per poche ore dopo una lunga assenza: sono venuto per la solita conferenza dove cerco come al solito di testimoniare che ci sono ancora persone non impazzite in Rete e nel mondo reale.
Si, lo so, dicevo praticamente le stesse cose dieci anni fa, anche venti se è per quello. Ma le abitudini aiutano anche a vivere, e forse sono difficili da perdere proprio per questo. Fatto sta che ho preso il famoso treno ad alta velocità fino alla solita Centrale, la solita metropolitana per il solito hotel con il solito centro congressi, e dopo avere dato il mio piccolo contributo al bene dell’umanità e celebrato il rito (per me inusuale) del solito aperitivo “in” con i soliti amici che vedo una volta all’anno, devo tornare in Centrale per prendere l’ultimo treno.
Una volta gli ultimi treni partivano intorno alle undici/mezzanotte, ma ora con il progresso della tecnologia e del sistema Italia partono alle 20:30.
Arrivo in stazione, che il buio ed i giochi di luce rendono sempre più affascinante del sole, entro dal solito portone e… ma dove sono?
Luci abbaglianti rivelano un’architettura di piani inclinati e tapis roulant, con bianchi mezzanini di fondi commerciali tanto illuminati quanto vuoti: sono costretto ad una serie di serpentine su tapis roulant chilometrici che hanno rimpiazzato le due antiche e corte rampe di scale mobili perse nell’antico ed enorme atrio della Stazione Centrale, che mi ha sempre ricordato l’architettura di Dune.
Mi oriento un attimo, la mentalità da ingegnere prende il sopravvento e mi rendo conto di essere imprigionato in una struttura che ha quasi riempito il grande atrio della stazione ferroviaria, trasformandolo in uno scenario degno di Doom o Duke Nukem.
Vorrei fuggire: percorro quasi di corsa l’ultima rampa di tapis roulant, rigorosamente guasta senza nessun avviso come nella migliore tradizione italiana, e sbuco nel piano rialzato dei binari, rimasto come prima… a parte l’elettronica e le luci. Certo, anche due o tre anni fa c’erano molti monitor (a tubo catodico) in questa ed in altre stazioni: l’ insostenibile inaffidabilità dei Bit aveva comunque già cominciato a mostrarsi.
Ma ora è tutto uno sfavillio di luci e LCD, un continuo flash di loghi, pubblicità inframezzati da qualche rara ed agognata informazione ferroviaria, una folla multietnica, non più di impiegati con l’aria torva ma fitta di ragazzine in stile manga, emo ed altro che sembrano materializzate nel mondo reale come i supereroi di Watchmen.
Ho purtroppo lasciato a casa l’ombrello dal manico luminoso di Blade Runner comprato su ThinkGeek che qui sarebbe stato perfettamente in tono. Forse Deckart è solo pochi passi più in là, ed invece di mangiarsi gli spaghetti cinesi sta comprando un panino fattoria per mangiarselo sulla Freccia Rossa. Sento quasi sulle spalle quella pioggerellina fitta… Bello, ma dov’è il mio treno?
Colonne su colonne di monitor LCD a 37 pollici mostrano eleganti tabelloni con orari e binari. Indovina un po’: l’unico treno di cui non è indicato il binario è il mio. Ahi, ahi, vediamo un po’ dove dovrebbe arrivare. Ci vuole un tabellone di quelli di carta, ancora rintracciabile perfino a Termini, e comune in stazioni più piccole come Santa Maria Novella o Rifredi.
Ma qui non ce n’è nessuno. Girare a caso non aiuta, ed intanto i monitor continuano a non indicare il binario del mio treno. Fermo. Calma. Ragioniamo.
Qualsiasi superficie visibile che possa essere usata per veicolare pubblicità vale un sacco di soldi, e quindi è già occupata da monitor, cartelloni o manifesti pubblicitari. Una superficie vale tanto più quanta più gente ci passa davanti. Devo cercare l’angolo più solitario e sperduto della stazione, perché solo in una nicchia senza visibilità sarà forse sopravvissuto un improduttivo orario cartaceo.
Ecco laggiù in fondo, nell’angolo più nascosto dell’ultimo binario c’è una panchina con due bellissime, aliene ed un po’ plasticose ragazzine giapponesi, e subito accanto una superficie giallo paglierino da treni in partenza che si rivela proprio lo sperato tabellone. Binario 12.
Torno indietro e dopo pochi secondi l’agognata e sofisticatissima informazione appare anche su tutti gli schermi della stazione. Forse ce la faccio a tornare a casa.
Sparita la fretta mi accorgo con piacere che alcuni degli LCD sono sorretti da un vero hardware, dalle antiche, curve ed altissime colonne chiodate di acciaio che mi ricordo da quando, bambino, venivo a trovare i miei cuginetti che abitavano nella grande città. Ma allora qualcosa è sopravvissuto insieme ai tabelloni cartacei. Sì, laggiù c’è ancora il baracchino dell’International Press, che tanti Bit e Byte mi ha fornito per saziare la mia curiosità, quando le informazioni per attraversare l’oceano viaggiavano su carta e non sulla fibra ottica.
L’Eurostar dipinto di rosso è finalmente arrivato, e Deckart non si è visto in giro. Niente Nexus 6 dunque, ed anche le replicanti giapponesi si sono rivelate normali turiste molto à la page in attesa della cenetta.
I monitor LCD hanno retto senza crashare per almeno 30 minuti: che Grandi Stazioni sia passata a Linux per visualizzare una lettera su uno schermo? Se è vero non lo sapremo mai. Anche nell’Eurostar, pardon, Freccia Rossa, la situazione è migliorata. Infatti i monitor appesi al soffitto dei vagoni non ribootstrappano ogni 45 secondi come l’ultima volta. Ora sono semplicemente spenti.
Il treno ad alta velocità mantiene, se non proprio le promesse, almeno la tradizione, quella dei 15 minuti di ritardo. All’arrivo l’architettura sobria ma non fredda del Razionalismo Italiano mi accoglie: ce ne vorrebbe ancora di razionalismo in questo povero Paese.
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