I contenuti dannosi per i minori hanno diritto di esistere online: lo ha ribadito una corte di appello di Philadelphia. La rete non sarà il posto idilliaco che le autorità statunitensi avevano previsto nel lontano 1998, approvando il Child Online Protection Act ( COPA ).
Il Congresso intendeva epurare la rete dai contenuti che avrebbero potuto turbare i minori. La legge prometteva multe di 50mila dollari per giorno di violazione e pene detentive fino a sei mesi di carcere per coloro che avessero, consapevolmente o inconsapevolmente, affollato la rete con “materiali dannosi per i minori” con “intenti commerciali”, contenuti che non fossero adeguatamente protetti da palizzate che impedissero l’accesso ai cittadini più giovani. A stabilire cosa fosse dannoso per i minori, il parametro dell’ oscenità , declinato su quelli che sono gli standard contemporanei che discriminano i valori dai disvalori.
La legge è in standby dal 1998. Rimbalza fra tribunali e Corte Suprema, strattonata fra attori della rete e Dipartimento di Giustizia. La battaglia fra le parti è stata più che mai ad ampio raggio: sono stati chiamati in causa i motori di ricerca per distillare, a partire dalle chiavi di ricerca e dai risultati restituiti, informazioni sul rapporto tra contenuti inadatti ai minori e i netizen. Non si sono cavati abbastanza dettagli per sostenere la necessità di una legge mai applicata perché incostituzionale .
Le motivazioni con cui i magistrati hanno bloccato il provvedimento sono sempre le stesse: la legge soffoca di fatto la libertà di espressione dei cittadini della rete. Costringere chiunque abbia un sito web ad innalzare dei filtri che possano effettivamente bloccare l’accesso dei minori a contenuti pericolosi significa costringerli a pubblicare contenuti inequivocabilmente adatti a tutti i tipi di pubblico: non esistono filtri tanto efficaci da consentire l’accesso ai soli maggiorenni. È inoltre estremamente complesso stabilire cosa sia dannoso per i minori: a fronte di multe salatissime e della minaccia del carcere, i webmaster non potrebbero che rifugiarsi nell’ autocensura . La legge avrebbe inoltre effetto sui soli siti web statunitensi, ma la rete è globale: quale l’efficacia di una legge che regola una sola porzione di web?
È così che il tribunale di Philadelphia ha ribadito queste argomentazioni: il Child Online Protection Act è incostituzionale, cozza contro il
Primo emendamento della Costituzione, imbavaglia il diritto di esprimersi e costringe i cittadini adulti a fruire di soli materiali che non mettano a rischio i minori. Ma non solo: a parere delle associazioni per i diritti civili e di numerosi operatori della rete, la legge può estromettere dalla rete contenuti informativi. Il tribunale ha dato loro ragione : la formulazione della norma soffre di eccessiva vaghezza e “di fatto investe una grande quantità di contenuti di cui gli adulti hanno il diritto costituzionale di fruire e che devono poter produrre”.
La associazioni per i diritti civili, fra cui ACLU, che da un decennio si scaglia contro la legge, plaudono al blocco del COPA: “Il governo non ha il diritto di censurare Internet più di quanto faccia con i libri e le pubblicazioni – denuncia Chris Hansen, legale di ACLU – le regole dovrebbero essere le stesse”. “Il modo più efficace di proteggere i bambini online, il mezzo che meno impatta sulla libertà di espressione, è consegnare alle famiglie le risorse per controllare quello che i bambini vedono e fanno online – avverte John Morris, del Center For Democracy And Technology – in questo modo sono i genitori a giudicare, si rispetta il Primo Emendamento e la differente sensibilità delle famiglie americane”. I cittadini della rete concordano .
Ma il Dipartimento di Giustizia dissente : “Siamo delusi per il fatto che la corte abbia respinto un provvedimento studiato per proteggere i nostri bambini dall’esposizione ai contenuti sessuali espliciti che ci sono su Internet”. Non è dato sapere se il Dipartimento di Giustizia continuerà ad accanirsi nella battaglia. C’è però chi si sta muovendo per fare fronte alla intransigenza dei tribunali: il procuratore generale dello stato di New York Andrew Cuomo da mesi combatte una battaglia a favore dei minori connessi, tentando di convincere i provider a ripulire la rete dei contenuti pericolosi. Ci è riuscito con Verizon, Time Warner Cable, Sprint, AT&T e AOL: smetteranno di offrire ai propri utenti i servizi Usenet e pattuglieranno siti e community per debellare i traffici di pedopornografia. Sta ora giocando tutte le sue carte con Comcast, riluttante ad aderire alla campagna di moralizzazione della rete: se l’operatore rifiuterà di sottoscrivere il codice di condotta, Cuomo – scrive il Procuratore in una lettera indirizzata ai vertici dell’ISP – minaccia di prendere provvedimenti . Imporre ostacoli all’accesso di Usenet, denunciava EFF nei giorni scorsi, è chiaramente lesivo del diritto dei cittadini ad esprimersi e ad informarsi. Non è però possibile, avvertiva la Foundation, tentare di frenare l’avanzata del Procuratore e difendere i protocolli di comunicazione discriminati: i provider non sono costretti da alcuna legge, ma aderiscono alla proposte di Cuomo in maniera spontanea.
Gaia Bottà