Milano – Dopo l’Europa e Bruxelles è la volta dell’Italia. Peter Fleischer , global privacy counsel di Google, prosegue il suo tour internazionale per tranquillizzare istituzioni e media sui fronti caldi della privacy, riaperti dall’ affare DoubleClick . La tesi di Fleischer? Molte polemiche sono dettate dalla scarsa conoscenza delle operazioni di Google , un “buco” che BigG intende cercare di sanare.
“Le polemiche sorte negli ultimi giorni in merito a rischi per la riservatezza, nascono in molti casi da una conoscenza solo parziale di quello che abbiamo fatto in questi anni e della nostra policy in materia”, si è difeso Fleischer con Punto Informatico e gli altri giornali intervenuti alla conferenza stampa indetta da Google Italia. “Effettivamente è difficile capire quali delle informazioni che ci riguardano vengono effettivamente utilizzate e come vengono utilizzate. Questo avviene in parte perché le informative sulla privacy non sempre sono di facile comprensione, e in parte per la rapidità con cui si sviluppano le tecnologie, cosa che complica la vita anche agli osservatori più attenti”.
Fatto sta che, dopo una luna di miele durata anni, il rapporto tra Google e i media sembra vivere un periodo di riflessione : troppo ampio è diventato ormai il peso della società di Mountain View nel mondo del Web per non far temere per la riservatezza degli utenti e della messe di dati che forniscono, non sempre consapevolmente, durante le loro attività Internet. “Capisco queste preoccupazioni, anche se non bisogna credere che i dibattiti degli ultimi giorni siano in cima alle preoccupazioni dell’utilizzatore comune, il quale guarda innanzitutto alla sicurezza, senza ovviamente rinunciare al diritto alla riservatezza”, ha risposto Fleischer.
Il ruolo dell’indirizzo IP
“Per spiegare come trattiamo i dati, è sufficiente prendere un esempio: se qualcuno digita la parola cars sul nostro motore di ricerca, la richiesta passa in tempo reale dal computer dell’utente ai nostri elaboratori, che restituiscono i risultati più rilevanti. Tutto avviene nel giro di pochi attimi, senza che sia attentata la riservatezza dell’utente, per il semplice fatto che gli indirizzi IP e i cookie, da soli, non consentono di identificare un individuo”.
Ma è sulla natura dell’indirizzo IP che si gioca la partita tra sostenitori della privacy e l’azienda statunitense. I primi, suffragati anche dai pareri di alcuni giuristi (tra cui Peter Schaar, Garante tedesco per la privacy e a capo dell’Article 29 Data Protection Working Party europeo) sostengono che l’IP debba essere trattato alla stregua di un dato personale . Una tesi però respinta da Fleischer: “Al massimo, conoscendo l’IP si può risalire al luogo da cui ci si collega, ma solo il provider potrà effettuare il collegamento tra l’indirizzo e la persona”.
Peraltro, ha spiegato il manager di Google, i file di log vengono conservati per un tempo limitato, 18 mesi , dopo di che la società provvede a cancellare in via permanente le ultime due cifre dell’indirizzo (vedi qui sotto), per poi assegnare un nuovo cookie generato in maniera casuale. In questo modo, quindi, verrebbe spezzata la catena che lega domanda di ricerca e fonte da cui è stata generata. Per intenderci, un po’ come avviene per gli acquisti via carta di credito o per i tabulati telefonici: quando si riceve la rendicontazione, non appaiono le ultime due cifre, rimpiazzate da piccole croci.
Ricerche e pubblicità mirate
Una strategia che solleva un dubbio su tutti: non si potrebbe allora evitare la memorizzazione anche solo temporanea, in modo da superare le preoccupazioni all’origine? La risposta, in questo caso, trova spiegazioni variegate e già dibattute. “Innanzitutto i log hanno un’utilità per i netizen”, ha spiegato Fleischer. “Servono, per esempio, a correggere gli errori di battitura e suggerire l’ortografia più corretta della parola ricercata. L’analisi dei file di log serve poi ai nostri ingegneri per combattere le frodi online, come quelle perpetrate da chi cerca di influenzare i nostri risultati per ottenere un vantaggio personale”.
Cookie e strumenti di tracking servono anche a personalizzare la ricerca , sostiene Google. “Se un utente digita la parola Chelsea , non è detto che voglia informazioni sulla squadra inglese di calcio. Magari pensava al quartiere di Londra o a quello di New York. Un algoritmo non può dare queste risposte, ma se considera le ricerche già effettuate potrà ridurre il divario tra i termini digitati e i risultati ricercati”.
C’è poi una spiegazione propriamente commerciale , legata a doppio filo all’acquisizione di DoubleClick. Fleischer non si nasconde: “La pubblicità mirata è un business importante per chi fa affari attraverso il Web: consente di coprire buona parte dei costi relativi ai contenuti e quelli relativi ai servizi gratuiti”. Il manager nega, però, che vi sia una commistione tra informazioni di servizio e pubblicità: “Gli annunci pubblicitari sono completamente slegati dai risultati di ricerca attraverso il motore”.
Uno dei punti più dibattuti riguarda Gmail: a molti sarà capitato di vedersi suggerire acquisti in tema con quello che si sta scrivendo. Vuol dire che le email sono spiate?, chiede qualcuno. “Niente affatto”, sottolinea Fleischer recitando un mantra già sentito: “Usiamo software simili a quelli che fanno la scansione delle email per rilevare eventuali virus. La combinazione tra parole-chiave del messaggio e pubblicità è opera di un computer, senza intermediazione umana”.
Luigi dell’Olio