Il Giudice federale di New York Denny Chin ha respinto le accuse di violazione di diritto d’autore sollevate ormai otto anni fa nei confronti dell’opera di digitalizzazione dei libri delle biblioteche a stelle e strisce da parte di Google Books.
Tale ambizioso progetto di divulgazione online del sapere umano rientra – secondo il giudice che ha accolto la tesi della difesa – nell’ambito del fair use , dispositivo legislativo statunitense che salvaguarda l’uso legittimo delle opere tutelate dal diritto d’autore: Google fornirebbe vitali benefici in ambito educativo e, in generale, pubblico , nonché la possibilità di accedere a numerosi nuovi dati “che aprono la strada a nuove possibili campi di ricerca”.
Ad accusare Google era Authors Guild che avere aperto il caso dopo aver raggiunto un accordo con Big G che il tribunale non aveva permesso di concretizzare e che – in quanto associazione che rappresenta gli interessi di tutti gli autori – aveva cercato anche di ottenere lo status di class action : per la violazione del copyright dei libri digitalizzati da Google senza il permesso degli aventi diritto (ma solo delle biblioteche cui chiedeva l’accesso) aveva chiesto un totale di 2 miliardi di dollari.
Mountain View ribatteva affermando che la class action era ingiusta, in quanto Authors Guild avrebbe finito per rappresentare anche gli autori che in realtà si sono espressi favorevolmente rispetto all’opera di digitalizzazione (il 58 per cento del totale, secondo una stima di Big G), e che questa rientrava nell’ambito del fair use in quanto non dannosa per il mercato dei libri interessati ma, anzi, servizio aggiuntivo a loro favore.
La prima vittoria Big G l’aveva incassata con la revoca della class action, decisa dalla corte d’appello di New York che ha rilevato come Authors Guild non potesse arrogarsi il diritto di rappresentanza di tutti autori, a maggior ragione dato che Mountain View era riuscita a dimostrare che parte di essi era schierata dalla sua parte.
L’ultima – e, per il momento, decisa – vittoria, Google l’ha ottenuta con la sentenza che fa rientrare l’opera di digitalizzazione da essa effettuata nel concetto di fair use che raccoglie la ricerca, l’insegnamento o la revisione critica (non a scopi commerciali) di un’opera: il giudice ha sottolineato che l’opera di digitalizzazione aiuta a preservare i libri, a dare nuova vita alle edizioni ormai perdute, e finisce per aiutare anche autori ed editori, cui fornisce un nuovo canale con cui trovare lettori. Mountain View permette infatti agli utenti di accedere solo a piccole anteprime delle opere digitalizzate, permettendo in caso di interesse di acquistarne una copia.
Google si è naturalmente detta soddisfatta e ha sottolineato di aver sempre cercato di far capire che opera come catalogo online a favore degli aventi diritto che la accusavano. Inoltre, grazie alla digitalizzazione, Mountain View ha avuto modo di analizzare numerosi dati che hanno messo in luce “l’evoluzione dei romanzi americani e di come le parole possano riflettere cambiamenti nella società e nei valori americani”.
Rientrare nel dispositivo legislativo del fair use significa non dover chiedere il permesso degli autori per questo tipo di utilizzi e libera completamente Google da qualsiasi accusa di violazione del copyright.
In generale, quindi, la decisione del giudice Chin può significare un importante ampliamento e/o consolidamento delle libertà previste dall’istituto del fair use : in particolare perché ha considerato il progetto di Google tale anche se ha interessato le opere nella loro interezza, una condizione finora considerata a priori lesiva della protezione della proprietà intellettuale. Per il tribunale di New York, invece, per la funzione trasformativa attuata da Big G l’accesso completo era necessario.
Authors Guild , invece, appare preoccupata e anticipa il ricorso contro la decisione: “Questo caso rappresenta un sostanziale attacco al diritto d’autore che merita di essere analizzato da una corte superiore”.
Claudio Tamburrino