Google ha annunciato una nuova iniziativa per contrastare i patent troll: si propone di concedere licenze brevettuali a favore delle startup .
Patent troll è il nome che connota negativamente quelle entità commerciali che non producono o non vendono alcun prodotto specifico, ma hanno un discusso metodo di business basato su aggressive strategie legali volte all’ottenimento di royalty o altre compensazioni per la loro proprietà intellettuale acquisita da altri . Per contrastarli Mountain View ha pensato di offrire con il suo Patent Starter Program l’accesso al suo ricco portafoglio brevettuale, o almeno ad una parte di esso, per il momento alle prime 50 medie entità con un fatturato compreso tra i 500mila ed i 20 milioni di dollari che ne faranno richiesta: Google offrirà loro tre delle sue cinque famiglie di brevetti non organici (suddivisioni discrezionali della sua proprietà intellettuale costituita dai brevetti acquistati e non legati a tecnologie sviluppate direttamente a Mountain View), permettendo di sceglierne due da ottenere in licenza non esclusiva gratuita.
Anche nel caso l’accordo non si concludesse, chi ne facesse richiesta avrebbe in ogni caso la possibilità di accedere a tali titoli brevettuali, un’occasione di per sé interessante per i ricercatori delle startup che potrebbero anche decidere di acquistare i singoli brevetti, presumibilmente con meno restrizioni rispetto a quelle del programma di licensing.
In entrambi i casi (licenza o acquisto), ai soggetti interessati Google richiede di aderire almeno per due anni al LOT Network, accordo di cross licensing lanciato proprio da Google insieme ad altre aziende come Dropbox, SAP e Canon, con l’idea di usare contro i patent troll le loro stesse armi: la raccolta di un imponente portafoglio brevettuale.
Lot Network si muove nel solco tracciato nel 2012 dal progetto “Defensive Patent License” (DPL), un vero e proprio patent pool (cioè un ampio e condiviso portafoglio brevettuale) da usare come arsenale per dissuadere eventuali denunce. Tramite di esso, infatti, i partecipanti ottengono una licenza gratuita ad utilizzare i brevetti coinvolti eventualmente licenziati a non membri. In cambio garantiscono stesse condizioni sui propri brevetti ed una quota di partecipazione tra i 1.500 ed i 20mila dollari l’anno (che tuttavia alle startup del programma di Google è abbuonata).
La nuova iniziativa targata BigG rappresenta l’ideale altra faccia della medaglia di quella lanciata lo scorso aprile per acquistare brevetti da inventori ed imprenditori: il piano è quello di non lasciare né un brevetto né un soldo ai patent troll, così da privarli di tutte le loro risorse.
Mentre, infatti, l’offerta di acquisto degli scorsi mesi garantiva a inventori e imprenditori di trovare un interlocutore plausibile in Google per l’eventuale vendita della loro proprietà intellettuale, ora Google chiude il cerchio aprendo alla possibilità di offrire alle startup gratuitamente l’accesso a parte del suo ingente portafoglio brevettuale. Così da rimettere alle medio-piccole entità che si occupano di innovazioni di avere gli armamenti necessari a resistere alla pressione da parte dei patent troll.
D’altra parte, come dimostra per esempio l’ ultimo rapporto di Unified Patents, entro la fine del 2015 le cause brevettuali totali solo negli Stati Uniti dovrebbero raggiungere la quota record di 6.100, rispetto alle 5mila del 2014, e a subirne in special modo i danni, secondo per esempio lo studio condotto dalla professoressa di marketing della Sloan School of Business del MIT Catherine Tucker, sono proprio le startup.
Così, mentre negli Stati Uniti si sta trascinando – tra stop e piccoli passi avanti – il dibattito circa le necessarie riforme normative per dare aria al settore brevettuale e mettere un bastone tra le ruote al rodato meccanismo dei patent troll, le aziende cercano soluzioni alternative, per difendersi da possibili attacchi nei loro confronti e limare le armi più pericolose a disposizione dei patent troll, creando anche alleanze inaspettate e molto fluide.
Così, Google ed Apple si sono per esempio messe fianco a fianco per chiedere che siano tali entità non praticanti a pagare le spese legali delle cause avviate e perse, e poco più di un anno dopo Mountain View (insieme a Facebook ed altre aziende ICT) ha depositato un intervento amicus brief proprio contro Cupertino per veder limitati i danni da essa richiesta per le violazioni di alcuni brevetti nella causa che la vede contrapposta a Samsung.
Claudio Tamburrino