Le prove della pressione esercitata dalla Motion Picture Association of America sulla politica statunitense per colpire Google e costringerlo ad una più malleabile collaborazione in funzione antipirateria sono emerse nei giorni scorsi, risultato dalle fuga di documenti seguita alla breccia aperta nei sistemi di Sony Pictures. Il sospetto che l’industria di Hollywood stesse foraggiando i Palazzi statunitensi con consigli e denari strisciava sotterraneo, ovattato dal contesto dell’azione cybercriminale in cui la fuga di documenti è avvenuta: sono bastati pochi giorni perché il caso prorompesse, con uno scambio di pubbliche accuse tra Google e MPAA e con una denuncia depositata da Mountain View nei confronti del procuratore Generale del Mississippi, compiacente rispetto alle attenzioni dell’industria dell’intrattenimento statunitense.
Le email riservate rese pubbliche dai cracker di Sony Pictures nei giorni scorsi avevano rivelato il tentativo, da parte di MPAA, di ristabilire le condizioni per regolamentare la Rete con un regime simile a quello previsto da SOPA , la proposta di legge statunitense che avrebbe voluto trasformare tutti gli intermediari della Rete in braccia armate dell’industria dell’intrattenimento, in funzione antipirateria. Interventi sui DNS per filtrare la Rete, stretti contatti con i fornitori di connettività volti ad istituire liste nere di siti da bloccare con misure tecniche ad hoc , pressioni sui soggetti che contribuiscono all’orientamento dei netizen: i tentativi di MPAA di piegare i recalcitranti operatori della Rete alle proprie esigenze sono stati supportati da opulente campagne politiche e mediatiche. Dalla corrispondenza di Sony Pictures è emersa in particolare l’urgenza di MPAA di abbattere Google e le sue posizioni neutrali, da mero intermediario: definito Golia, il gigante di Mountain View sarebbe dovuto cadere sotto le indagini dei procuratori generali statunitensi, e gli studios hollywoodiani avevano puntato sull’ attorney general del Mississippi, Jim Hood, stanziando una cifra tra i 575mila dollari e 1,175 milioni di dollari per incastrare Google e mettere in luce il suo ruolo di facilitatore delle brutture della Rete .
Google , alla luce di queste rivelazioni rese pubbliche, è uscita allo scoperto con un mordace attacco a mezzo blog , volto a chiarire il proprio ruolo e a difendere la propria posizione cavalcando l’attenzione mediatica concentrata ora sulle pratiche sotterranee di Hollywood: “Siamo profondamente preoccupati riguardo ai recenti report che indicano come la Motion Picture Association of America (MPAA) abbia condotto una campagna segreta e ben coordinata per ridare vita con altri mezzi alla mai approvata legge SOPA – accusa nel nome della Grande G il general counsel Kent Walker – e abbia aiutato a costruire argomentazioni legali con una indagine portata avanti con il procuratore generale del Mississippi Jim Hood”. Google sottolinea come MPAA abbia finanziato campagne informative e ricerche pesantemente di parte , come quelle rilasciate da Digital Citizens Alliance e citatissime in ogni consesso antipirateria, come abbia investito denari in operazioni di lobbying per ricreare i filtri che SOPA avrebbe dovuto far calare e per coinvolgere il procuratore Hood in una battaglia contro Google stessa. Hood, in questo contesto, ha fatto pervenire a Mountain View una richiesta per ottenere dati utili alle indagini e una lettera densa di accuse : nella missiva, il procuratore generale sosteneva esistessero “prove inoppugnabili che mostrano come Google faciliti e tragga profitto di numerose attività illegali online, dalla pirateria al traffico di droga e di esseri umani” e come Google “abbia ripetutamente rifiutato di prendere ragionevoli ma importanti contromisure”, mettendosi in una posizione che farebbe dubitare della legalità della sua stessa condotta.
MPAA e l’ attorney general Hood, legati a doppio filo nella composizione della missiva, redatta interamente dai legali degli studios , non hanno esitato a reagire. MPAA si è scagliata contro la “vergognosa” presa di posizione di Mountain View, che si ritrae come “un difensore della libertà di espressione” solo per “distogliere l’attenzione dalla sua stessa condotta e dalle legittime e importanti indagini portate avanti dai procuratori generali nei confronti di Google Search e del ruolo che riveste nell’abilitare e agevolare le condotte illegali, come il traffco di droga, di esseri umani e di documenti falsi, nonché il furto di proprietà intellettuale”.
Anche il procuratore Hood si è espresso con vigore: ha negato ogni coinvolgimento con MPAA, ha giurato di ignorare la relazione che intercorre fra Hollywood e il legale che ha consultato per formulare la propria accusa contro la Grande G, ha assicurato che la sua sete di giustizia nei confronti dei motori di ricerca si estende ben oltre le istanze dell’industria dei contenuti, in difesa delle vittime di crimini deprecabili come la pedopornografia e i traffici di droga.
Dopo gli indignati botta e risposta, Google ha scelto di formalizzare il proprio attacco : la subpoena con cui il procuratore Hood ha imposto a Google di rivelare dati relativi alle proprie attività e alle attività dei suoi utenti secondo Mountain View “costituisce un attacco ingiustificato che viola il consolidato quadro normativo che negli USA regolamenta le piattaforme Internet e gli intermediari online”. Google ha dunque scelto di portare il caso davanti a un tribunale per ottenere l’annullamento dell’ordine del procuratore generale del Mississippi: nella denuncia spiega come negli ultimi 18 mesi Hood abbia fatto pressione su Google, minacciando l’azienda di indagini e provvedimenti “a meno che non si adeguasse e bloccasse dal motore di ricerca, dalla piattaforma di condivisione video YouTube, dai sistemi di advertising i contenuti di terze parti (ad esempio siti, video, o advertising non creati da Google) che il procuratore generale ritiene inappropriati”. Al rifiuto di Google, che pure ha concesso all’industria e alle autorità strumenti e collaborazione al contrasto delle attività illegali, il procuratore Hood ha emesso la subpoena, richiedendo 141 documenti, 62 colloqui e informazioni relative a “contenuti pericolosi” che Google contribuisce a organizzare in Rete. Si tratterebbe di una ordinanza che esula dalla giurisdizione del procuratore generale e, confermano anche Public Knowledge e Electronic Frontier Foundation , associazioni che si battono per i diritti dei cittadini della Rete, di una richiesta pericolosa e fondata su labili basi legali : “Il procuratore generale può preferire una Internet filtrata preventivamente – aggredisce Google nella denuncia – ma la Costituzione e in Congresso gli hanno negato l’autorità per imporla”.
Il procuratore generale Jim Hood, a poche ore dalla denuncia di Google, ha reagito puntando il dito contro Mountain View e il suo opportunismo nello sfruttare la contingenza mediatica creata con l’attacco a Sony Pictures: Hood spiega che Google ha risposto alla subpoena in passato, con 99mila documenti “consegnati alla rinfusa, sui quali non è stato possibile effettuare delle ricerche”, spiega di aver concesso più tempo per ridurre Google a più miti consigli, e spiega come solo dopo l’hack di Sony e la fuga di documenti riservati, “forte dei suoi miliardi di dollari, delle proprie prodezze mediatiche e del proprio potere politico”, Mountain View si sia rivolta al tribunale “nel tentativo di fermare lo stato del Mississippi per aver osato porre certe domande”. Nonostante tutto, Hood chiede un “time out”, promette negoziazioni amichevoli e auspica una risoluzione pacifica della questione.
Difficile credere che Google ceda ora le armi: le rilevazioni venute alla luce nei giorni scorsi sono già diventate una leva per una battaglia globale contro #ZombieSOPA, e la versione sotterranea dello Stop Online Piracy Act, contro gli attentati dell’industria dell’intrattenimento e della politica alla libertà della Rete, e al ruolo neutrale degli intermediari.
Gaia Bottà