Nel dibattito sulla interoperabilità degli standard e delle tecnologie informatiche entra di peso anche Google con il vicepresidente senior Jonathan Rosenberg, la cui comunicazione precedentemente spedita via e-mail ai G-dipendenti viene ora distribuita al pubblico come una sorta di “manifesto open” della società. Che subito dopo confessa: lo facciamo sempre e comunque perché ci guadagniamo un sacco di quattrini .
Nella sua comunicazione Rosenberg elogia i sistemi aperti, “competitivi e decisamente più dinamici” rispetto a quelli chiusi in cui “il vantaggio competitivo non deriva dal lock-in degli utenti, ma piuttosto da una comprensione del sistema in rapido movimento migliore di quella di chiunque altro e dall’utilizzo di quella conoscenza per generare prodotti di maggiore qualità e più innovativi”.
Google magnifica le proprietà salvifiche dell’openness ma soprattutto del suo contributo alla community FLOSS: “Usiamo decine di milioni di linee di codice open source per far girare i nostri prodotti – continua Rosenberg – Ma restituiamo anche: siamo il più grande contributore di open source del mondo, partecipando a più di 800 progetti per un totale di 20 milioni di linee di codice”.
Tra questi progetti i principali portano ovviamente i nomi di Android, Chrome (con o senza OS) e i tanti, innovativi standard telematici presentati (OpenSocial, o3d, Wave) e supportati negli anni recenti. Insomma Google lavora attivamente e investe sulla crescita di un web migliore e più moderno e non solo quello riguardante i propri servizi.
L’impegno del moloch telematico del nuovo secolo verso la openness non è, naturalmente, un’opera di beneficenza : “Il nostro impegno nei sistemi aperti non è altruistico” ammette candidamente Rosenberg, quando piuttosto “una buona pratica di business” poiché una Internet aperta (informazione e cultura libere, governo trasparente, collaborazione nella scienza e nella medicina, partecipazione nell’entertainment) “crea un flusso costante di innovazioni che attrae gli utenti e fa crescere l’intera industria”.
Volendo leggere il manifesto sull’openness del vicepresidente di Google da una prospettiva diversa , è evidente come i contributi open di più alto profilo scaturiti dalla fucina del Googleplex (i succitati Android, Chrome e Chiome OS) contribuiscano a convogliare traffico e denari di un maggior numero di utenti verso il suo ecosistema di ricerca e advertising. Un ecosistema che non appare a molti perfettamente aperto e trasparente, soprattutto quando nell’ambito del business della raccolta e trattamento delle informazioni personali dei netizen.
Alfonso Maruccia