Le strategie in politica estera del governo degli Stati Uniti dovrebbero fare della libertà d’espressione sulla Rete uno dei propri capisaldi. Dato in particolare uno scenario come quello attuale, in cui si stagliano minacce al libero pensiero online. Da paesi come la Cina e l’Iran , tanto per iniziare. È questa, in sintesi, la recente posizione dell’alto rappresentante di Google Nicole Wong, intervenuta nel corso di un dibattito guidato dalla sottocommissione del Senato statunitense impegnata su tematiche quali i possibili approcci legislativi relativi ai principali diritti umani. Un’occasione istituzionale per Google, che ha fatto il punto sulla situazione attuale dell’ecosistema online in vari paesi del mondo.
Ma non c’era soltanto Google . I delegati di Microsoft e Yahoo! hanno alimentato il dibattito al Senato, nell’ottica di quella che è stata chiamata Global Network Initiative (GNI). Una maniera per responsabilizzare quelle società high-tech che spesso vengono spinte verso la censura da alcuni governi autoritari del pianeta. Responsabilità che forse non tutte vorrebbero accollarsi.
Almeno stando al chairman della sottocommissione – il senatore democratico Dick Durbin – che ha fatto notare come aziende del calibro di Facebook, Twitter, McAfee e Apple avessero rifiutato di partecipare al dibattito. Ma Google c’era e ci ha tenuto a far sentire le proprie posizioni. Il governo degli Stati Uniti dovrebbe fare tesoro degli accadimenti più recenti, a partire da tutto ciò che ha scatenato scintille tra BigG e le autorità di Pechino.
Come ha fatto notare Wong, almeno 25 paesi del globo terrestre hanno bloccato i servizi di Google in passato. La sua piattaforma di video sharing – YouTube – non è stata ben vista da paesi come l’Iran e il Pakistan. La stessa ex-Persia ha recentemente dichiarato guerra ai servizi di posta elettronica di Gmail. Blogger e Orkut non sono stati poi accolti certo in maniera trionfale in paesi come l’India e l’Arabia Saudita.
Le autorità a stelle e strisce – secondo il parere di Wong – dovrebbero quindi pensarci molto bene prima di fare affari con governi che si premurano continuamente di soffocare la libera espressione online. Anche se lo stesso CEO di Google, Eric Schmidt, non aveva fatto mistero di avere le migliori intenzioni per il prosieguo dei rapporti commerciali con il paese asiatico.
La situazione generale a livello mondiale sarebbe dunque particolarmente grave. Se persino paesi democratici come l’Italia – ha detto Wong – hanno sistemi legislativi differenti a regolare le attività online . Con conseguenze spiacevoli per BigG, che si è ritrovata a fronteggiare una contestata condanna, in barba alle previsioni (peraltro statunitensi) del cosiddetto porto sicuro riservato agli intermediari.
L’amministrazione di Barack Obama starebbe pensando ad alcune mosse . Su tutte, quella di portare la situazione cinese davanti agli alti vertici della World Trade Organization . Una strategia che potrebbe aumentare il livello di tensione tra Pechino e Mountain View. L’accusa risiederebbe in determinate pratiche scorrette di mercato da parte del paese asiatico, ritenute fortemente discriminanti nei confronti di alcune società IT statunitensi .
Ma non si tratta di responsabilizzazioni unilaterali. Nella visione del senatore Durbin bisognerebbe imporre sanzioni di natura civile su quelle aziende statunitensi che cedono tranquillamente alle pressioni censorie dei paesi autoritari. Non sono stati offerti particolari dettagli, ma il concetto consisterebbe nella punizione di quelle società che violano i diritti umani attraverso l’oscuramento di blog e social network.
Ma questa nuova legislazione incontrerebbe alcuni impedimenti. “Con alcune eccezioni, l’industria tecnologica sembra non molto intenzionata ad autoregolarsi – ha spiegato Durbin – E nemmeno ad instaurare un dialogo diretto con il Congresso, circa i seri pericoli che minacciano i fondamentali diritti umani. Data questa sorta di resistenza, ho deciso che sia giunto il momento di essere più propositivi a riguardo”.
Mauro Vecchio