Con una pagina web a tema , Google invita gli utenti di Internet a coalizzarsi, a “prendere l’iniziativa” contro quello che viene descritto come un tentativo di mettere le mani sul controllo della rete telematica mondiale da parte dell’ONU e relativi paesi membri.
L’azienda che più di tutte ha tratto vantaggio dalla struttura open di Internet – offrendo servizi, vendendo spazi di advertising a inserzionisti, webmaster e utenti – dice che ora la “rete libera e aperta” è minacciata: “Alcuni governi hanno intenzione di sfruttare l’opportunità di un incontro a porte chiuse che si terrà a dicembre per autorizzare la censura e regolamentare il Web in modo restrittivo”, recita la pagina messa in piedi da Google.
Il rischio, già noto da tempo , è che l’International Telecommunication Union (ITU, agenzia ONU per le telecomunicazioni) decida di arrogarsi diritti di controllo sui sistemi basilari per il funzionamento del World Wide Web e degli altri servizi TCP/IP che ora sono in mano ad altre organizzazioni – come ICANN – prevalentemente influenzate dalla politica statunitense.
Più di 190 stati prenderanno parte al meeting a porte chiuse di Dubai, fra il 3 e il 14 dicembre prossimi: Google vuole che i netizen più consapevoli facciano pressione sui rispettivi rappresentati politici affinché l’incontro non vada nella direzioni auspicata da paesi come Iran, Cina e Russia, prevedibilmente interessati a togliere la gestione dell’infrastruttura di Internet agli USA per poter esercitare controlli di tipo censorio .
Tramite i suoi portavoce, l’ITU smentisce di voler limitare la libertà e la gratuità di utilizzo di Internet e di servizi “accessori” come Skype, YouTube o Facebook: avesse voluto, dice ITU, Google avrebbe potuto partecipare all’incontro come membro IT. Ma non l’ha fatto.
Internet è libera ma anche “digital divisa”, soprattutto in Asia: a sottolineare l’evidenza è un’altra agenzia dell’ONU, la Economic and Social Commission for APAC (ESCAP), che parla di differenze abissali fra i diversi paesi dell’area (Corea del Sud e Giappone in testa, tutti gli altri in coda) e della necessità di grossi interventi infrastrutturali per far sviluppare l’economia di rete.
Alfonso Maruccia