Pirateria digitale, un’onda spaventosa per i lidi dell’industria culturale, una sfida da combattere con armi pericolose da maneggiare per gli apparati legislativi nazionali. Alla Camera dei Deputati, i membri della Commissione parlamentare d’inchiesta sui fenomeni della contraffazione e della pirateria commerciale hanno invitato la divisione tricolore del gigante Google a spiegare in aula il funzionamento della prevenzione e della lotta.
Come fa BigG a stanare i pirati del web? Il policy counsel di Google Italia Giorgia Abeltino è partita dalla gigantesca piattaforma di video sharing YouTube, dai suoi utenti a metà tra produttore e consumatore di contenuti audiovisivi. A parte il classico meccanismo delle takedown notice , l’azienda californiana ha già speso 60 milioni di dollari per la tutela del copyright tramite Content ID .
“Il 95 per cento dei content owner è ora partner di Content ID”, ha spiegato Abeltino alla commissione presieduta dall’On. Giovanni Fava. Il sistema gestisce la copia ( footprint ) dei contenuti detenuti dai titolari, avvisandoli dopo le operazioni di matching – ovvero il confronto tra due file – nel caso di presunta violazione da parte di un utente del Tubo. La major di turno potrà optare per la rimozione coatta o per la monetizzazione del contenuto stesso attraverso la pubblicità .
Per l’On. Fava – già promotore della famigerata proposta d’emendamento per la rimozione dei contenuti illeciti su segnalazione di qualsiasi soggetto privato – il problema più difficile da risolvere è costituito dalla proliferazione di siti terzi (anche dislocati al di fuori dell’Unione Europea) per la condivisione massiva di contenuti in violazione delle leggi sul diritto d’autore.
Nella visione offerta dai rappresentanti di BigG, soluzioni estreme come il blocco DNS dei siti pirata non rappresentano la strada più efficace per l’enforcement . Come dimostrato negli States con la caduta del disegno di legge SOPA , l’adozione di filtri DNS rischia di minare l’intero ecosistema digitale, attentando alla libertà d’espressione con l’eventuale rimozione di un blog per la presenza di anche una sola fotografia illecita.
Secondo Google, la terza via – il cosiddetto approccio follow the money – risulterebbe decisamente più efficace. Una tesi sostenuta già nella scorsa estate, quando l’azienda di Mountain View proponeva di far saltare tutti i ponti finanziari che partono dalla pubblicità e dagli abbonamenti premium degli utenti . I vari governi dovrebbero così costruire coalizioni con i network pubblicitari, così come con le società che gestiscono le transazioni e gli stessi titolari dei diritti.
Ma cosa succede quando un sito pirata ottiene un alto posizionamento nel ranking di Google sul suo celebre motore di ricerca? È quanto chiesto dall’On. Fava a Giorgia Abeltino, che ha subito sottolineato la fondamentale differenza tra “risultati naturali” e “risultati pubblicitari”, ovvero attraverso il sistema dedicato AdWords. I primi non sono affatto creati da un ordine a pagamento, bensì da criteri di rilevanza e completezza negli algoritmi di BigG .
“Nel ranking , tutti quei siti che hanno subito delle notice vengono abbassati, per favorire la presenza di soli contenuti leciti”, ha spiegato il policy counsel di Google. La stessa direttiva comunitaria sul commercio elettronico – richiamata in Italia con il Decreto Romani – non comporta l’applicazione di filtri preventivi nei risultati del search , dichiarando gli intermediari non responsabili fino all’avviso da parte di un titolare dei diritti.
Google avrebbe adottato un approccio più che ossequioso nei confronti dei content owner , collaborando con la polizia postale italiana e più in generale dopo qualsiasi ordine diramato da un giudice competente. Nel Transparency Report pubblicato alla metà dello scorso giugno, una serie di richieste inviate da governi e aziende private per la rimozione di milioni di URL pirata.
“La nostra è una forma di tolleranza zero contro la contraffazione”, ha poi aggiunto Abeltino. Google svolge scrupolosi controlli preventivi su tutti quei siti che chiedono di fare pubblicità tramite la piattaforma AdWords. “In media, il 95 per cento degli account disabilitati viene individuato proprio grazie a questo tipo di screening preliminare”, ha concluso il policy counsel di Google Italia.
Mauro Vecchio