Google indicizza anche i file presenti sulle unità di storage connesse alle reti locali, e la colpa non è di Mountain View quanto piuttosto degli utenti incauti e poco informati sui rischi connessi all’archiviazione di dati che si vorrebbero privati, al riparo da criminali e da occhi indiscreti.
Il nuovo allarme sullo storage disponibile in “cloud” arriva da CSO , che con poche, semplici istruzioni di ricerca ha potuto “scavare” all’interno di HDD, NAS e dischi connessi in rete, accessibili via FTP e non configurati correttamente per tenere fuori dalla porta tutti tranne i legittimi proprietari dei dischi.
Le ricerche di CSO hanno portato all’identificazione di un gran numero di file contenenti dati sensibili e riservati quali password, foto private, diari personali, documenti familiari, email, informazioni relative a passaporti e carte di identità, dichiarazioni dei redditi, dettagli su account finanziari o carte di credito e molto, molto altro.
I casi peggiori di “cloud personale” aperto ai quattro venti coinvolgono secondo CSO sistemi di storage prodotti da Seagate (Personal Cloud, Business NAS), Western Digital (MyCloud), e LaCie (CloudBox). Per ciascuno di questi dispositivi CSO indica i passi necessari a rafforzare la sicurezza, fatto che dovrebbe impedire una volta per tutte ai motori di ricerca pubblici di indicizzare i file privati.
Alfonso Maruccia