Chi naviga in rete da qualche anno conosce bene il nome DoubleClick e lo associa, ineluttabilmente e forse grossolanamente, ad una idea “sbagliata” della rete. Quella invasiva e disturbante dei banner sempre più grandi che invadono portali e siti web, quella di progetti di ampia profilazione delle navigazioni in rete, di trucchetti vari, cookies e web-bugs dei quali molti anni fa si discuteva animatamente. Molti anni fa.
Chi naviga in rete da qualche anno e conosce bene Google, chi ha seguito le modalità con le quali questa azienda fin da subito ha scelto di proporsi all’utente della rete, che ne ha seguito gli sviluppi, prima con il motore di ricerca, poi con una serie di servizi innovativi che hanno letteralmente dettato l’agenda dello sviluppo di Internet degli ultimi anni, perfino con il suo approccio soft e geniale al mondo della pubblicità, creato inventandosi un sistema di advertising alternativo a quelli preesistenti, testuale, non invasivo e soprattutto in grado di creare un mercato pubblicitario amplissimo e di nicchia anche per piccoli investitori (la cosiddetta coda lunga della pubblicità di adsense), mai si sarebbe immaginato che Google comprasse DoubleClick (che nel frattempo si è trasformata in qualcosa d’altro ma che in ogni caso vende, di fatto, banner grafici per il web) per una cifra altissima, oltre tre miliardi di dollari, la più alta mai pagata nell’elenco delle molte acquisizioni della casa di Mountain View.
Quello che è accaduto oggi, con l’annuncio di questo deal impossibile fra il diavolo e l’acqua santa, fra il bianco ed il nero, fra la rete Internet pensata per l’utente e quella progettata sull’utente, è forse la definitiva messa in chiaro di un percorso interrotto: la fine di Google come interprete unico del sogno romantico e un po’ sciropposo di una “nuova era” e la constatazione, ormai inevitabile, anche nelle menti più entusiaste e ben disposte come quella di chi scrive, di una trasformazione avvenuta che dalla “mission” nota e un po’ ingenua della “organizzazione delle informazioni in rete” si è trasformata in quella pragmatica della “organizzazione dei propri affari in rete”.
Nulla di vergognoso – sia chiaro – ma la fine dell’innocenza, unita alla constatazione di una nuova normalità alla quale anche Google andrà sottoposta: quel sentimento misto di ammirazione e sospetto che dedichiamo a tutti i soggetti che si affacciano sulla rete Internet per proporre servizi e beni al miliardo di cittadini del mondo che la abitano.
Gli ingenui (come me) avrebbero potuto pensare che Google, pur traendo gran parte dei propri profitti dal mercato pubblicitario, non fosse interessata a proporsi come soggetto unico per un ambiente pubblicitario che va dalla rete alla TV dai quotidiani alle radio, non foss’altro per non tradire l’idea di azienda innovativa e alternativa al mercato fino ad oggi conosciuto che si è andata costruendo negli anni. Gli ingenui (come me) avrebbero continuato ad immaginare che se l’utente è al centro (una idea web 2.0 che Google ha anticipato di qualche anno) le vecchie modalità di advertising che potete vedere dentro moltissimi siti web (rich text, streaming audio video, banner fluttuanti ecc.) non sarebbero state percepite come possibili e degne di acquisizione, ma solo come vecchie ed irrecuperabili.
La copertura ormai assoluta del mercato pubblicitario che l’acquisizione di DoubleClick mette nelle mani di Google, rende certamente più seri di quanto già non fossero ieri alcuni aspetti legati alla profilazione degli utenti in rete, delle loro abitudini di navigazione e di acquisto. Aggiungere questa grande messe di informazioni a quelle che Google ottiene per altre vie (le keyword del motore di ricerca per esempio), considerando anche il credito di fiducia che l’utilizzo di certi servizi impone (l’archivio delle nostre email affidate agli hard disk di Gmail, per esempio), fa oggi del gigante di Mountain View un osservato speciale molto più di quanto non lo fosse fino a ieri, sollevando anche ragionevoli preoccupazioni antitrust.
Il “Don’t be evil” che fino a ieri è stato per molti di noi (insieme a comportamenti e approcci cristallini) sufficiente per “fidarci” di Google, oggi obiettivamente non basta più. È come se con quest’ultimo passo Google avesse consumato il credito di credibilità che ne aveva fatto fino a ieri, nelle nostre menti, una azienda (forse l’unica) davvero differente. Oggi con l’acquisizione di DoubleClick, l’ex gigante cattivo della pubblicità invasiva in rete, tutto torna come prima e Google diventa una (grande) azienda Internet come un’altra. L’innocenza è finita e un poco ci dispiace.
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Ad ogni nuova acquisizione riprende forma la preoccupazione per la quantità di informazione gestite da Google (immagazzinate peraltro in un data center tra i più grandi al mondo ). A fianco delle informazioni relative ai singoli individui (cosa cercano, cosa scrivono nelle email, cosa hanno nel PC ecc.), Google fa oggi un salto di qualità nella conoscenza del mondo della pubblicità attraverso l’acquisizione di DoubleClick .
DoubleClick gestisce due categorie principali di informazioni (e lo fa da dieci anni): da una parte ci sono i contenuti prodotti da migliaia di siti e tutte le notizie in merito alla quantità e alla tipologia di traffico web generato; dall’altra ci sono i dettagli sulla profilazione dei visitatori dei siti e della loro relazione con gli spazi pubblicitari. La buona notizia è che mediante questi dati e con le adeguate funzioni di gestione (magari rendendole gratuite come è giù successo con Google Analytics frutto dell’ acquisizione di Urchin), Google potrà offrire delle soluzioni di advertising sempre più versatili e complete. Anche sul fronte di chi produce contenuti, c’è da scommettere che sarà sempre più facile poter inserire spazi pubblicitari di qualsiasi natura e poi lasciare che sia Google a venderli in cambio di una parte dei ricavi.
In definitiva, sembra proprio che Google stia gradatamente realizzando un marketplace pubblicitario globale, che possa fornire a tutti gli attori di questo mercato (publisher, agenzie, inserzionisti) uno strumento complessivo, in grado di pianificare su canali on e off-line, scegliere tra formati multipli (digitali o meno, testo o immagini oppure video) e con modelli di prezzo differenti.
Solo che, in genere, i marketplace funzionano bene quando sono gestiti da un’organizzazione neutra, tipicamente coinvolta nella parte tecnologica e/o nella funzione di garante tra le parti. In questo caso invece, avremmo un unico soggetto che copre tutta una serie di funzioni e competenze, svolte peraltro con uno share di mercato che arriva a superare l’80% in alcuni paesi come l’Italia.
Ne risulta che le indubbie opportunità per chi pubblica contenuti derivanti dalla scalabilità delle piattaforme di un operatore che opera contemporaneamente nella distribuzione, nella vendita e nel tracking della pubblicità, hanno come contraltare il rischio di omologazione nel modo di commercializzare le inserzioni e, addirittura, nel costruire i contenuti in modo strettamente correlato alla pubblicità che gli compare accanto. Nel contempo, verrà acuita la competizione tra i publisher perché la soglia di ingresso per accedere al mercato degli inserzionisti sarà sempre più bassa, col risultato che la distribuzione dei budget pubblicitari, una risorsa comunque limitata, sarà ancor più polverizzata tra editori di tutti i tipi.
Luci e ombre all’orizzonte anche per chi acquista e pianifica pubblicità. Google sta allargando rapidamente la sua sfera di competenza e, attraverso i suoi servizi, potrà gestire campagne di comunicazione su media molteplici con modelli decisamente più efficienti degli attuali. Rimane da capire se una gabbia distributiva nella quale si dovrà necessariamente passare, porrà problemi alla creatività pubblicitaria e alle economie complessive delle campagne; pensiamo, ad esempio, ai vincoli posti nella distribuzione della stampa o nella grande distribuzione, che di fatto creano dei poteri di forza che condizionano pesantemente le economie dei settori interessati.
Mauro Lupi
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