È Google, ancora e sempre Google ad animare il fondamentale settore del search in rete , coacervo di interessi economici, pubblicitari e contenutistici. Ma non tutte le novità piacciono a tutti. Due i fronti principali: la nuova ricerca senza keyword, pensata per il mobile, e la “ricerca nella ricerca”, una feature disponibile da inizio mese in grado di facilitare le cose agli utenti ma anche di far alzare gli scudi ai produttori e distributori di merci e contenuti.
Fedele alla sua recente mission di mobilità prima di tutto , Google ha introdotto nei giorni scorsi un nuovo sistema di ricerca basato sulle località, in grado di “anticipare” le necessità degli utenti e fornire una sorta di elenco di scorciatoie alle risorse che potrebbero risultare più interessanti nel luogo specificato. L’engine, ancora in fase di sviluppo e soprannominato “LCB” (ovvero “location based”), è raggiungibile da ogni smartphone dotato di connettività alla Rete.
Ma a fare notizia in questi giorni è soprattutto la funzionalità di ricerca a scatole cinesi in via di sperimentazione su Google Search a partire dai primi giorni di marzo. Cercando su Google.com termini corrispondenti a marchi, brand , società ben note, il motore restituirà accanto ai tradizionali link anche un secondo box di ricerca , grazie al quale scandagliare all’interno del dominio ricercato senza abbandonare la familiare interfaccia di BigG. Un esempio chiarificatore della funzionalità è quello restituito dalla ricerca del termine NASA .
Spiegando le motivazioni che hanno portato all’introduzione del nuovo box, lo sviluppatore Ben Lee ha scritto : “Attraverso la sperimentazione, ci siamo accorti che presentare agli utenti un box di ricerca come parte del risultato, aumenta la possibilità di individuare l’esatta pagina cercata”. L’idea sarebbe nata insomma da una esigenza di completezza e non da bieche motivazioni di monetizzazione del traffico come maligna qualcuno.
La matrioska del search non è stata infatti accolta con grande calore da molti di quei nomi per cui Google ha deciso di impiegare il box di sottoricerca, celebri marchi del calibro di The Washington Post, Wikipedia, Wal-Mart, Best Buy, The New York Times. Proprio sul Times è apparso un articolo ricco di opinioni e spunti di riflessione in merito alla faccenda, con al centro la supposta “aggressività” mostrata da Mountain View nel piazzare, accanto ai risultati scaturiti dal secondo search nei sottodomini, banner pubblicitari riguardanti servizi o risorse offerte dai concorrenti .
C’è chi, come la consulente SEO Ann Smarty, mette in evidenza il fatto che la funzionalità potrebbe significare “cattive notizie” per i siti web oggetto della matrioska, e chi, come Pinny Gniwisch di Ice.com , prevede “enormi problemi” qualora Google “decida di adottare il sistema con tutti i brand”.
Ma c’è anche chi mette in evidenza i lati positivi della feature , in particolare dal punto di vista degli utenti. Donna L. Hoffman, dell’Università di California, Riverside, è sicura che gli utenti “apprezzeranno molto il servizio perché è probabilmente un modo migliore di cercare, rispetto ad usare i siti stessi”.
I motori di ricerca integrati nei siti, non è un mistero, sono spesso assai meno efficienti del search di Google, dicono in molti, tanto vale usare proprio Google per fare un lavoro a cui i publisher e i portali non sono in grado di adempiere da soli. Senza considerare che, qualora un portale volesse essere escluso dalla sperimentazione del search matrioska – come già successo con Amazon – basterebbe fare un fischio a Mountain View per vedersi escludere dal “double search” di BigG.
Alfonso Maruccia