“Google non è e non dovrebbe essere l’arbitro che regola ciò che appare e ciò che non appare online”: questo il concetto che Google ha ribadito durante la conferenza Hate and the Internet , organizzata da Anti-Defamation League ( ADL ), un’associazione che combatte su ogni fronte l’antisemitismo.
Durante la conferenza, il rappresentante di ADL, Brian Marcus, aveva mostrato al pubblico numerosi esempi dei cosiddetti siti dell’odio , ricettacoli di esplicite invettive e di sedicenti teorie scientifiche volte ad instillare nei netizen sentimenti razzisti. Siti “molto molto pericolosi – spiegava Marcus – che intendiamo individuare e fermare “.
Una dichiarazione alla quale Meir Brand, a capo di Google Israele, ha risposto con fermezza, temendo forse di essere chiamato all’azione in quanto rappresentante di uno dei principali gatekeeper della rete . “In Google siamo a favore del diritto delle persone alla libera espressione – ha spiegato Brand, ebreo a sua volta – Spetta ai governi eletti dai cittadini e ai tribunali decidere ” e regolamentare ciò che può e ciò che non può apparire online. Una linea di pensiero alla quale Google non sempre si è attenuta ; una pratica che Google si riserva però di disapprovare , qualora gli ordini impartiti dalle autorità statali sconfinassero in richieste di censure generalizzate.
Google è quindi un semplice esecutore di ciò che stabiliscono i governi e le leggi dei singoli stati: è in base a questo meccanismo che in Austria e in Germania BigG rimuove i contenuti neonazisti, in quanto proibiti per legge .
Inoltre, affinché una posizione razzista non prevalga sulle altre nell’ambito di una ricerca “neutrale”, Google ha approntato un sistema di avvertimenti per il netizen . In questo modo BigG non censura alcunché: semplicemente, offrendo una “spiegazione dei risultati della ricerca”, orienta il cittadino della rete nel muoversi fra le pagine restituite dal motorone. Un accorgimento che Google mette in atto anche con la chiave di ricerca jew , ebreo, spesso brandita in senso dispregiativo.
La risposta di Google sembra aver convinto il rappresentante di ADL: Marcus ha convenuto che il modo migliore per affrontare il problema sia attenersi alle leggi, agire alla luce del sole e lasciare che sia un pubblico consapevole e responsabile a giudicare quanto propagandato dai siti dell’odio.
Altri partecipanti alla conferenza si sono invece dimostrati meno disponibili a tollerare la libertà di espressione nelle sue manifestazioni più estreme e anacronistiche: “La legge è semplicemente uno degli strumenti che riempiono la scatola degli attrezzi per combattere contro le espressioni di odio – ha spiegato Christopher Wolf, a capo di International Network Against Cyberhate – abbiamo bisogno anche della collaborazione volontaria dell’industria di Internet”. Una posizione discutibile e discussa, sostenuta in passato anche dal Simon Wiesenthal Center e alimentata dal dilagare della rete dell’odio, che si stima consti di settemila tra siti, profili sui portali di social networking, blog, video e newsgroup.
Gaia Bottà