I protagonisti sono un distratto impiegato di banca, il più noto motore di ricerca web e un ignaro netizen la cui colpa è sembrata soltanto quella di avere un indirizzo email troppo simile a quello di un altro. Sarà un giudice federale della California a decidere come andrà a finire: la banca ha recentemente trascinato Google in tribunale perché non voleva fornirle l’identità dell’incolpevole netizen .
Tutto inizia alla metà dell’agosto scorso quando un cliente della Rocky Mountain Bank , con sede nello stato del Wyoming, chiede ad un impiegato di spedire ad un cliente terzo una serie di documenti riguardanti un prestito. L’impiegato esegue con diligenza il compito, allegando al messaggio di posta elettronica un dettagliatissimo file. Ma sbaglia indirizzo .
Poco dopo , uno sconosciuto cittadino della rete apre la sua casella Gmail e vi trova un file zeppo di informazioni confidenziali relative a esattamente 1.325 persone , tra cui nomi, indirizzi, dati su prestiti e numeri di previdenza sociale. Resosi conto del gravissimo errore, l’impiegato provvede a contattare lo sconosciuto per intimargli di non aprire il file e di cancellarlo immediatamente. Ma non ottiene risposta alcuna.
A questo punto per la Rocky Mountain Bank non c’è altro da fare se non contattare direttamente Google per conoscere lo stato di attivazione dell’account o, meglio, l’identità dello stesso. BigG risponde picche, spiegando alla banca di non poter violare le proprie policy in materia di privacy senza nemmeno contattare l’utente per ottenere un’autorizzazione esplicita. L’azienda di Mountain View si dichiara disponibile ad agire soltanto dietro imposizione dell’autorità giudiziaria. E così la Rocky Mountain Bank si è mossa.
La banca statunitense ha poi fatto di più: ha chiesto alla corte californiana di tenere il caso sotto silenzio, per evitare che i propri clienti si riversassero agli sportelli con preoccupate domande sulla gestione di dati e conti correnti. Il giudice ha tuttavia rifiutato la richiesta, spiegando che un caso del genere non costituisce motivo sufficiente per tenere il dibattimento sotto segretezza.
Come riporta Techdirt , pare che il giudice federale abbia obbligato Google a disattivare l’account dell’incolpevole netizen che ora potrebbe diventare l’unico protagonista sfortunato di una vicenda di errori madornali e silenzi mancati.
Mauro Vecchio