Google non ha ammesso di violare la privacy dei cittadini della Rete, ma ha accettato di sborsare 8,5 milioni di dollari nel nome della riservatezza dei netizen, e di rimborsare le spese legali degli attori di una class action che denunciava la sistematica consegna delle parole chiave digitate dall’utente ai siti di destinazione delle ricerche.
La class action, avviata nel 2010 da tale Paloma Gaos, si scagliava contro i referrer : la URL che Google genera nel momento in cui fornisce i risultati di ricerca contiene la query formulata dall’utente, informazione che Google consegna ai siti di destinazione che l’utente decide di visitare. I referrer, fondamentali per conoscere la provenienza dei visitatori di un sito, rappresentano informazioni rilevanti per il marketing, e sono, così denuncia Gaos, “trasmessi a siti terzi senza che l’utente lo sappia o abbia acconsentito, allo scopo di aumentare le entrare pubblicitarie e il profitto”. In determinate situazioni, i referrer potrebbero violare la privacy dei cittadini della Rete . I casi citati da Gaos, in cui la violazione è quasi accidentale, sono quelli in cui l’utente digiti il proprio nome come chiave di ricerca: il sito di destinazione ottiene così dei dati personali, ma non può avere la certezza che i dati corrispondano a quelli di colui che ha effettuato la ricerca, che potrebbe aver digitato nome e cognome di una terza persona.
Nonostante la specificità e la labilità delle violazioni contestate dall’accusa , Google ha dimostrato di voler agire per proteggere meglio i dati personali dei propri utenti. Nel 2011 il motore di ricerca ha cominciato a cifrare i referrer per gli utenti loggati, fatta eccezione per quelli consegnati ai siti che compaiono come risultati sponsorizzati.
Il colosso del search ha ora compiuto un passo in più: nella proposta di accordo depositata presso la corte californiana che sta analizzando il caso si spiega come Google abbia acconsentito a illustrare con più trasparenza i meccanismi che vengono innescati nel momento in cui un netizen effettua una ricerca, offrendo spiegazioni dettagliate fra le sue pagine informative dedicate alla privacy . E a donare 8,5 milioni di dollari a un manipolo di associazioni che si battono a tutela della privacy online, oltre che a rimborsare le spese legali sostenute dagli attori della causa. Quella della donazione milionaria è una pratica già adottata in passato, si sottolinea nella stessa proposta di accordo, una pratica che però non convince l’autorevole legale Eric Goldman, da sempre attento alle questioni che riguardano i diritti digitali: “la proposta sottolinea che 8,5 milioni di dollari siano una cifra usuale per questo tipo di accordi, il che mi sembra sconcertante perché in molti di questi casi il danno per gli utenti è minimo, ammesso che ve ne sia”. 8,5 milioni di dollari, bruscolini per Google, potrebbero non essere tali per tutti i servizi che operano con i referrer.
Gaia Bottà