Google, prima vittoria sulla giustizia di Hollywood

Google, prima vittoria sulla giustizia di Hollywood

Gli studios puntavano tutto sull'indagine del procuratore generale del Mississippi, mirata a dimostrare il coinvolgimento di Mountain View nelle brutture della Rete, per imporle il filtraggio, anche in funziona antipirateria. L'inchiesta è stata temporaneamente bloccata
Gli studios puntavano tutto sull'indagine del procuratore generale del Mississippi, mirata a dimostrare il coinvolgimento di Mountain View nelle brutture della Rete, per imporle il filtraggio, anche in funziona antipirateria. L'inchiesta è stata temporaneamente bloccata

L’odore dell’intrigo si era levato nel mese di dicembre, esalato insieme a certi documenti emersi dalla breccia inferta ai sistemi di Sony Pictures: gli scambi di email intrettenuti tra la dirigenza dello studio hollywoodiano e la Motion Picture Association of America (MPAA) delineavano i contorni di una guerra aperta contro Google e la sua posizione neutrale rispetto all’operato dei cittadini della Rete, una guerra volta a reintrodurre normative come SOPA, che tentavano di coinvolgere gli intermediari dell’online nella lotta alla pirateria. Una strategia in cui l’industria dei contenuti contava sul coinvolgimento dell’ attorney general dello stato del Mississippi, Jim Hood, foraggiato per indagare sulla Grande G e dimostrare la sua complicità con certe attività illegali in Rete, di grande impatto mediatico: il malcelato obiettivo appariva quello di richiamare all’ordine Google, e costringerla alla collaborazione a supporto dei detentori dei diritti, come esempio che giustificasse la necessità di far agire le piattaforme della Rete al servizio della giustizia.

Mountain View, a ridosso della rivelazione di questi documenti, aveva mostrato tutta la propria indignazione e si era mobilitata per opporsi all’operato del procuratore generale Hood, con ogni probabilità orchestrato da MPAA: Google avrebbe combattuto per bloccare le indagini con cui l’ attorney general tentava di dimostrare il suo coinvolgimento nel facilitare e trarre profitto da numerose attività illegali online, dalla pirateria al traffico di droga e di esseri umani, avrebbe lasciato che fosse un tribunale a valutare l’equità di una subpoena che la obbligava alla presentazione di 141 documenti e a 62 colloqui relativi a “contenuti pericolosi” che avrebbe contribuito a rendere disponibili e visibili in Rete. Il procuratore Hood, nel turbine delle polemiche, aveva invitato Google alla calma; Google, nell’occhio del ciclone, aveva sporto denuncia.

Chiamato a confrontarsi presso una corte distrettuale del Mississippi, il procuratore Hood aveva squalificato il tentativo di Google come una “sfacciata operazione strategica per ostacolare le indagini con cui un procuratore generale sta accertando delle possibili violazioni della legge”. Mountain View aveva ribattuto che ad essere in gioco sono i principi che sorreggono la Rete e che prevedono la neutralità delle piattaforme online, nonché i diritti costituzionali della libertà di esprimersi ed informarsi, che i filtri voluti dal procuratore, e previsti da proposte di legge antipirateria come SOPA, comprimerebbero senza alcuna garanzia.

I fronti, in questi mesi, si sono schierati: Hood si è giocato l’ intervento a supporto della propria azione vergato dalle autorità di 10 stati americani in apprensione per la possibilità che un’azienda privata possa intralciare l’esercizio della giustizia, Google ha potuto contare sull’ appoggio di associazioni che si battono per i diritti digitali come EFF e Public Knowledge, determinate nel difendere i limiti tracciati dalla sezione 230 del Communications Decency Act, che distinguono le responsabilità di un editore da quelle di un intermediario della Rete.

Henry Wingate, il giudice chiamato a valutare il caso, ha ora temporaneamente bloccato la subpoena richiesta dall’ attorney general Hood.
“Se i procuratori generali non sono in grado di far valere le leggi che regolamentano il mercato dei medicinali e delle sostanze stupefacenti e che proteggono i consumatori solo perché un’azienda usa Internet – ha commentato Hood con una dichiarazione ad alto impatto – dovrebbe scattare il campanello di allarme per tutti i cittadini americani i cui figli possono semplicemente digitare le parole “comprare droga” perché vengano aiutati da Google a completare la ricerca con i suoi suggerimenti”. La Grande G illustra la decisione in modo diverso: “nel solo 2014 abbiamo rimosso oltre 500 milioni di annunci pubblicitari pericolosi e oltre 180 milioni di video YouTube sulla base della violazione delle nostra policy – così Google illustra la propria aderenza alle leggi – La decisione del tribunale riconosce che la campagna a lungo termine portata avanti da MPAA che è partita con SOPA è contraria alla legge”.

Il giudice, nonostante i commenti delle parti lascino intendere diversamente, non è ancora entrato nel merito delle loro posizioni: si è limitato a riconoscere la solidità degli argomenti della Grande G e ha fissato la scansione temporale delle prossime fasi del contenzioso, nelle quali sarà approfondito il caso nello specifico.

Gaia Bottà

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Pubblicato il
6 mar 2015
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