Non smette di far parlare di sè Google Suggest, la funzionalità di completamento automatico delle ricerche degli utenti di Mountain View. A poche ore dalla notizia della querela sporta in Francia da alcune organizzazioni antirazziste per presunto antisemitismo, arriva una sentenza del Tribunale di Pinerolo (Torino), che assolve BigG dall’accusa di aver inserito associazioni diffamatorie nel suo search a danno del presidente di una importante holding.
Questi aveva infatti rilevato che, digitando nella stringa di ricerca di Google il proprio nome, la funzione di autocomplete suggeriva di includere nella richiesta le parole “arrestato” e “indagato”. Immediata la diffida verso Google, chiedendo la rimozione di queste associazioni, ritenute diffamatorie e lesive della reputazione. Tesi rafforzata dal fatto che su Internet non era presente alcun documento che potesse evidenziare precedenti giudiziari che lo riguardassero.
La difesa di Google, come nei precedenti casi, ha sostenuto che il funzionamento di Suggest è automatico , “in forza di un algoritmo che tiene conto delle più diffuse ricerche effettuate di recente sul web”. L’ordinanza del Tribunale di Pinerolo ha accolto tale tesi, stabilendo che l’associazione di determinate parole non sarebbe diffamatoria, limitandosi a “rendere noto che un certo numero di fruitori di internet si interroghi sul fatto se il ricorrente sia o meno stato coinvolto in vicende penali e voglia verificare se nel Web vi siano informazioni al proposito”.
Nello specifico, la decisione del Tribunale piemontese rileva che le parole chiavi in questione (“arrestato” e “indagato”) non sarebbero di per sè offensive: secondo i giudici Suggest, con il suo algoritmo, ha solo delineato come “un certo numero di utenti ha in tempi recenti interrogato il motore di ricerca per sapere se X fosse (o fosse stato) indagato oppure arrestato. Il riferimento, in termini di mera ricerca di informazioni, all’eventuale coinvolgimento di una persona in indagini penali, tuttavia, non è di per sé diffamatorio. Mancherebbe, inoltre, la dimostrazione dell’elemento soggettivo, per un delitto punito a titolo di dolo, non essendo provato che Google o gli utenti abbiano voluto ledere la reputazione del ricorrente”.
Questa controversia giudiziaria che ha visto Google Suggest come parte convenuta è solo l’ultima di una lunga serie: dal caso francese a quelli avvenuti in Svezia, Brasile e Regno Unito, per finire con una vicenda analoga dibattuta in tribunale a Milano, che ha visto però BigG condannata per diffamazione a danno di un imprenditore che aveva visto comparire, accanto al suo nome, il termine “truffatore”.
Cristiano Vaccarella