UPDATE 13:45: La reazione di Google: in calce la dichiarazione rilasciata a Punto Informatico.
Roma – Un’ordinanza del tribunale di Milano, relativa ad un’ipotesi diffamatoria mediata da Google, ha imposto al motore di ricerca di filtrare alcuni suggerimenti proposti dalla funzionalità Suggest , e ritenuti “calunniosi”.
Il risultato della vertenza legale è molto simile a quanto accaduto in Francia nel settembre scorso o ancora in Svezia e in Brasile .
Il tribunale di Milano si è dovuto esprimere in merito a delle lamentele presentate da un imprenditore del settore finanziario , che peraltro pubblicizzava la sua attività anche tramite Internet: nel digitare il proprio nome e cognome nel motore di ricerca di Google, attraverso il servizio Suggest search , vedeva affiancarsi le parole “truffa” e “truffatore” . L’abbinamento del proprio nome con tali parole costituiva per il ricorrente un suggerimento non veritiero e diffamatorio, lesivo del suo onore, della sua immagine pubblica e professionale. Per tale motivo ha adito le vie legali presentando richiesta di rimozione dal servizio Suggest dell’associazione ritenuta ingiuriosa e chiedendo un risarcimento per ogni giorno di ritardo nell’adempimento dell’ordine del giudice.
Il ricorrente ha evidenziato che nel caso di specie le informazioni diffamatorie non sono quelle memorizzate direttamente sul server, ma sono contenuti derivanti dall’intervento effettuato su di essi operato da un software creato appositamente da Google per facilitare la ricerca da parte degli utenti. La tesi del ricorrente ha inoltre sottolineato che non solo non vi sarebbe stata da parte del motore di ricerca l’adozione di filtri preventivi per impedire il verificarsi di situazioni simili lesive dei diritti della persona costituzionalmente garantiti, ma il fatto che Google non abbia provveduto neanche successivamente ad intervenire sul sistema per eliminare tale calunniosa associazione. Per tali ragioni l’imprenditore ha ricondotto la responsabilità dell’accaduto a Mountain View in base al principio generale ricavabile dalla direttiva europea sul commercio elettronico e dagli art. 15 e 16 del D. Lgs. 70/03 in virtù dei quali l’host provider non è considerato responsabile delle informazioni fornite solo in due casi specifici: se dimostra di non essere stato effettivamente a conoscenza dell’illiceità delle informazioni fornite o se dimostra di aver provveduto tempestivamente alla rimozione di tali informazioni non appena ne sia venuto a conoscenza.
Google invece avrebbe omesso di intervenire per correggere l’abbinamento di parole nonostante la specifica segnalazione inviatagli da parte del legale del ricorrente. Una ordinanza dello scorso gennaio aveva già invitato Google ad intervenire ma il motore di ricerca aveva fatto ricorso sostenendo che il sistema è basato su valutazioni statistiche che discendono dalle ricerche degli utenti e che pertanto non offre contenuti di cui è responsabile.
Il tribunale di Milano ha tuttavia rigettato il reclamo definendo Google una banca dati e non un semplice motore di ricerca e sostenendo che l’associazione di parole attraverso la funzionalità denominata “Autocomplete” è frutto del servizio creato da Google e non di materiale semplicemente “ospitato” sul web.
Stabilendo ciò, il Tribunale ha osservato come la società reclamante sia oltre che un hosting provider, anche un Internet Service Provider (ISP), vale a dire un fornitore di servizi di motore di ricerca. I motori di ricerca, si spiega nel documento del Tribunale di Milano, sono database che indicizzano i testi sulla Rete e che offrono agli utenti un accesso per la consultazione. Per tale motivo essi sono da considerarsi allo stesso tempo come una banca dati e un software. “Per tale ragione – sottolinea la decisione – i motori di ricerca vengono qualificati come ISP ed operano come intermediari dell’informazione tipici dell’Internet, utilizzando vari strumenti per intermediare appunto le informazioni, tra cui a) una piattaforma tecnologica (il che comporta pagine di web, data-base e software necessari al funzionamento della piattaforma); b) data-bases e c) softwares (in particolare gli spiders)”. Il complesso di tale sistema consente di “pervenire all’esito della ricerca che è una o più pagine web con una serie di informazioni organizzate dal meccanismo predisposto dal motore di ricerca”.
In sostanza la sentenza decreta che se anche il risultato dell’autocompletamento discende da una realtà a cui Google è estraneo, riguardando perlopiù le ricerche degli utenti, la sua visualizzazione avviene solo in forza dell’algoritmo creato da Google e in base ai criteri del meccanismo.
La decisione ha inoltre respinto anche le obiezioni pratiche fornite da Mountain View che aveva precisato che “trattandosi di un software completamente automatico è evidente l’impossibilità – senza compromettere l’intero servizio – di operare un discrimine tra termini buoni e termini cattivi , non solo in considerazione del numero indeterminabile di parole con un potenziale significato negativo, ma anche e soprattutto del fatto che il medesimo termine potrebbe avere significati del tutto diversi se abbinati a parole diverse”.
Il Tribunale ha ritenuto di dover condividere la valutazione emessa in prima istanza che aveva ritenuto diffamatoria l’associazione del nome del ricorrente con le parole truffa e truffatore. “L’utente che legge tale abbinamento – si sottolinea nella decisione – è indotto immediatamente a dubitare dell’integrità morale del soggetto il cui nome appare associato a tali parole ed a sospettare una condotta non lecita da parte dello stesso”. Irrilevanti, inoltre, sono state definite le tesi presentate dal colosso della ricerca in merito a tale aspetto, che ha sottolineato come “l’utente di Internet è perfettamente in grado di discernere i contenuti offerti dalla Rete”. Tale assunto rappresenterebbe per il Tribunale una affermazione discutibile trattandosi di una affermazione priva di riscontro obiettivo. In particolare, tenendo in considerazione il “diverso livello culturale e le capacità assai variegate in ambito informatico da parte degli utenti della Rete” la tesi presentata da Mountain View a giustificazione dell’accaduto non apparirebbe condivisibile, probabilmente utopistica in riferimento all’utente medio del sistema e ancor più riguardo la maggioranza di essi.
Secondo il Tribunale, inoltre, ritenuta diffamatoria l’associazione del nome e cognome del ricorrente alle parole truffa e truffatore , è “innegabilmente di per sé foriera di danni al suo onore, alla sua persona ed alla sua professionalità”, inoltre la “potenzialità lesiva della condotta addebitata alla reclamante appare suscettibile, per la sua peculiare natura e per le modalità con cui viene realizzata, di ingravescenza con il passare del tempo stante la notoria frequenza e diffusione dell’impiego del motore di ricerca”.
La situazione sarebbe aggravata anche dal fatto che il ricorrente utilizza il web per la propria attività professionale. Pertanto il giudice di Milano rigettando il ricorso di Mountain View ha condannato Google a rimborsare 1.500 euro per i diritti lesi e 2.300 per onorari vari e spese legali.
Raffaella Gargiulo
UPDATE: Il caso potrebbe non concludersi qui, stando alle dichiarazioni che BigG ha rilasciato a riguardo: “Siamo delusi per la decisione del Tribunale di Milano. Riteniamo che Google non debba essere considerata responsabile per i termini che appaiono in Autocomplete in quanto vengono previsti attraverso algoritmi che si basano sulle ricerche effettuate in precedenza dagli utenti, non vengono identificati da Google stessa. Al momento stiamo valutando le opzioni a nostra disposizione”.