L’ira degli inserzionisti si sta abbattendo su Google: il colosso di Mountain View, dicono, li trae in inganno con un’interfaccia che li costringe, loro malgrado, a sfruttare il programma AdWords nella sua interezza, a distribuire annunci pubblicitari indesiderati.
Tale David Almeida, gestore di una compagnia di investigazioni private, intendeva pubblicizzare la propria attività guadagnando visibilità fra i risultati di ricerca che Google mostra ai propri utenti. Non desiderava però approfittare dell’offerta di pubblicità contestuale da esporre su siti web dei publisher che aderiscono al programma AdSense.
Per dispiegare la propria campagna web, Almeida nel 2006 si è registrato al servizio e ha compilato il campo relativo al massimo costo per click che era disposto a pagare per gli annunci visualizzati fra le pagine delle ricerche di Google. Aveva invece lasciato in bianco il campo sottostante, qualificato da Google come opzionale : così facendo, Almeida intendeva rinunciare all’offerta di visualizzare gli annunci su pagine web ordinarie.
Ma così non è stato: BigG ha interpretato il campo non compilato come un implicito assenso da parte di Almeida alla pubblicazione di annunci sui siti dei publisher, annunci per cui l’inserzionista avrebbe dovuto sborsare lo stesso prezzo indicato nel campo sovrastante.
Questo il motivo della denuncia, un caso a cui il ricorrente vorrebbe fosse attribuito lo status di class action affinché Mountain View restituisca il maltolto agli inserzionisti più ingenui . Il problema, a parere di Almeida, è che gli ad visualizzati su siti di terze parti rendono molto meno rispetto alle pubblicità che Google fa comparire accanto alle ricerche, annunci rivolti direttamente a colui che sta tentando di informarsi in rete riguardo ad argomenti attinenti ai prodotti dell’inserzionista. Per questo motivo, denuncia Almeida, Google si comporterebbe in maniera poco trasparente, traendo in inganno gli utenti con un’interfaccia poco chiara, imponendo loro condizioni ingiuste, “ridefinendo il concetto universalmente noto di spazio bianco”. Sono due le colpe di BigG, punta il dito il rappresentante di Almeida: “Google non solo mette le mani in tasca ai consumatori ma scombina le loro campagne di advertising”, semplicemente non esplicitando che il campo relativo al programma al quale gli inserzionisti non desiderano aderire andrebbe riempito con uno zero.
Google non ha rilasciato commenti riguardo alla causa ma potrebbe aver iniziato a meditare sulla strategia da adottare in tribunale: Almeida è rappresentato dallo stesso studio legale che aveva strappato a BigG 90 milioni di dollari per risolvere pacificamente un caso di click fraud.
Gaia Bottà