L’ultima pubblicazione del Google Transparency Report , relativa al semestre gennaio/giugno 2011, offre dei dati grezzi interessanti. Lo strumento di BigG nasce con lo scopo di rendere trasparente la “pressione” da parte dei governi e delle pubbliche autorità riguardo, da una parte, alla richiesta di rimozione di contenuti dai siti che fanno capo a Google, e dall’altra alla richiesta di dati personali degli utenti.
Analizzare i dati così come sono presentati, sia per quanto riguarda la “classifica” relativa alla richiesta di informazioni sia per quella riguardo la richiesta di rimozione , è una tentazione, giornalisticamente parlando, che presenta però ben poca utilità.
Nei brevi commenti che, per alcuni Paesi, Google affianca alla presentazione dei dati, risaltano subito Stati Uniti e Regno Unito : i primi registrano un aumento del 70 per cento di richieste di rimozione di contenuti (e del 29 per cento per le richieste di informazioni personali degli utenti), mentre le richieste di rimozione inviate dalle autorità britanniche sono aumentate del 71 per cento rispetto alla rilevazione del semestre precedente.
Questi dati sono per certo rilevanti di per sé: per essere anche utilizzabili in maniera “scientifica” andrebbero, però, compiute due operazioni. Prima di tutto, una semplice ponderazione del singolo dato in base alla popolazione dello stato considerato: la differenza tra la richiesta di rimozioni in Francia e negli Stati Uniti, ad esempio, è meno rilevante rispetto a quella tra questi ultimi e l’India se si inserisce nell’equazione il numero di abitanti. Attraverso questa operazione appare, come scrive il Telegraph , che i cittadini britannici sono “i più spiati” al mondo.
In secondo luogo sarebbe necessario svolgere, per ogni singolo Stato, un’analisi di contesto che comprenda un ampio ventaglio di elementi: dal numero e tipo di servizi offerti (ad esempio, non in tutti i Paesi Orkut è presente e diffuso) al numero degli utenti registrati ai vari servizi di Google. Soprattutto, considerando la politica di Google per cui l’azienda si attiene al rispetto delle leggi vigenti in ogni singolo stato, la normativa vigente in materia di privacy da una parte, e quella relativa a diffamazione, sicurezza nazionale, oltraggio a pubblico ufficiale e, in generale, tutto ciò che può portare alla rimozione di un contenuto, dall’altra. A questa prospettiva va collegato un altro dato offerto da Google: la percentuale di istanze accolte e, dunque, di contenuti (totalmente o parzialmente) rimossi e di informazioni private fornite.
Quest’ultima considerazione porta esattamente allo scopo preciso con cui Google sembra aver voluto aprire le porte alla trasparenza: dirigere l’attenzione sull’inadeguatezza di alcune leggi disciplinanti questi argomenti, nate prima della diffusione di Internet e rimaste invariate, come l’ Electronic Communications Privacy Act negli Stati Uniti (emanato 25 anni fa e causa, probabilmente, di quel 93 per cento di accettazioni delle richieste, da parte delle autorità statunitensi, di consegna dei dati degli utenti).
Infine, non bisogna dimenticare che Google è forse l’unica azienda al mondo a fornire agli utenti un report di questo genere . Il Google Transparency Report è dunque utile per tracciare delle tendenze e come base per analisi sul rapporto tra Rete, legislazione sulla materia e censura. Se tutti i siti che hanno un capitale in termini di informazioni sui propri utenti decidessero di intraprendere percorsi simili, la prospettiva che se ne ricaverebbe sarebbe meno parziale.
Elsa Pili