Il disegno di Google sarebbe completo: l’invito rivolto agli utenti ad affidare dati personali, i servizi che incoraggiano ad esprimere preferenze, la sovrapposizione tra tutte le informazioni accumulate. L’ecosistema dei servizi offerti agli utenti si riflette sul versante advertising, denuncia il fondatore di Privacy International Simon Davies, e questa agghiacciante simmetria è ora più evidente che mai con il programma dedicato a quelli che vengono definiti consigli condivisi .
Il programma shared endorsement , avviato in parallelo agli ultimi aggiustamenti alle policy realtive alla privacy e attivo dall’11 novembre, prevede che gli utenti vengano trasformati in testimonial, con le loro preferenze, espresse in contesti non commerciali, riciclate per supportare i prodotti che veicolano l’advertising attraverso il network pubblicitario della Grande G. Foto, video e nomi reali, il cui candore viene sfruttato per conquistare la fiducia dei consumatori. È vero che il programma coinvolge solo gli adulti, è vero che esiste un sistema di opt out per svincolarsi dal meccanismo, ma secondo Davies non è sufficiente.
Il documento , inviato alle autorità che in 14 stati europei (Italia, Francia, Spagna, Norvegia, Svezia, Repubblica Ceca, Danimarca, Slovenia, Austria, Belgio, Germania, Lituania, Paesi Bassi e Polonia) si occupano di vigilare sulla tutela della privacy, intende fare luce sulla strategia con cui Google sta aprofittando della voglia di condividere dei propri utenti incanalandola in un dibattuto sistema uniforme per il trattamento dei dati, vincolandoli sempre più ad un account Google+, ora necessario anche per lasciare un commento su YouTube.
“La tecnologia è tutta centrata sugli account Google+ e può risultare difficile per un utente evitare Google+”, inteso come “social network e snodo identitario”, ora che è “innestato stabilmente in tutti i popolari servizi dell’azienda”, spiega Davies. E proprio l’attrito tra le diverse istanze che i servizi di Google portano con sé è ciò che preoccupa Davies: da una parte Google+, con “l’incoraggiamento ad assumere le identità reali”, dall’altra servizi come YouTube, centrati più sul commento in sé che non sull’identità della voce che lo manifesta. L’obbligo ad esprimersi anche su YouTube con il proprio profilo Google+, spiega Davies, “crea ora uno scontro fra contesti in cui le vere identità sono associate con le opinioni personali”, inviti ad esporsi che possono confondere l’utente e possono incoraggiarlo ad associare il proprio nome a qualsiasi tipo di contenuti .
A parere dell’attivista l’uniformazione della policy dei diversi servizi e la possibilità di sfruttare esplicitamente gli utenti e i loro pareri per l’advertising sono stati comunicati all’utente come un vantaggio in termini di controllo sui dati, di sicurezza, di privacy, mentre si tratterebbe semplicemente dell’ultimo ingranaggio della macchina che Google ha costruito per alimentare il proprio business. “I servizi di Google sono gratuiti per gli utenti ma gli utenti li pagano a tutti gli effetti con i loro dati personali, che Google sfrutta per generare introiti dall’advertising”: Davies sottolinea come Mountain View non possa permettersi di smettere di raccogliere i dati degli utenti e di metterli al servizio della pubblicità, che nel 2012 gli ha garantito il 90 per cento del fatturato.
E se come denuncia Davies “Google rappresenta una delle più significative minacce tese dal settore privato alla privacy online dei cittadini europei”, è il momento che le autorità si mobilitino.
Gaia Bottà