Se è vero che chiunque abbia anche una solo vaga conoscenza della Rete sa che “google” è ormai radice semantica di parole che hanno a che fare con la ricerca online, è altresì vero che Google è ancora ben identificabile con l’azienda che ha dato vita alle tecnologie e ai business che l’hanno resa il marchio che vale miliardi: Mountain View non ha di che temere per il proprio trademark, che continuerà a etichettare le proprie iniziative imprenditoriali.
Nel 2012 i cittadini statunitensi David Elliot e Chris Gillespie si erano rivolti a un tribunale dell’Arizona per denunciare la volgarizzazione del marchio Google. Elliott e Gillespie avevano snocciolato di fronte al tribunale articoli accademici e esempi tratti dal linguaggio comune per dimostrare come “google” fosse ormai sinonimo di ricerca su Internet, fra coniugazioni verbali e autorevoli testimonianze dell’evoluzione della lingua: dimostrare che Google fosse stato fagocitato dal suo stesso successo, assurgendo a parola d’uso comune come accaduto ad altri celebri marchi , avrebbe permesso all’accusa di chiedere che il trademark fosse invalidato, con indubbio vantaggio per la possibilità di riappropriarsi di certi domini quali googledisney.com o googlegaycruises.com , già riassegnati al colosso della Rete dopo un confronto di fronte all’ICANN.
Google, per difendere la propria posizione, ha presentato in propria difesa un sondaggio effettuato presso i consumatori, dimostrando che la stragrande maggioranza di loro, il 94 per cento, continua a considerare “google” come marchio che identifica un’azienda e i suoi servizi, non un sinonimo per “ricercare su Internet” o per “motore di ricerca”.
Il giudice ha dunque stabilito che Google, pur essendo entrato nell’uso comune della lingua, continua a mantenere la protezione che la legge garantisce a un marchio registrato. Un marchio che, secondo le ultime rilevazioni di Millward Brown, si posiziona in testa alla classifica dei brand globali, con un valore stimabile in quasi 159 miliardi di dollari.
Gaia Bottà