Minori impossibilitati a usare Google e amanti del fotoritocco costretti a cedere le proprie creazioni ad Adobe: se le condizioni di utilizzo dei servizi fossero applicate alla lettera, sparuti ed impavidi sarebbero i cittadini della rete.
Sorprende la lettura dei Termini di servizio che BigG impone ai propri utenti di accettare prima di fruire dei prodotti che offre ai netizen. Google considera un contratto vero e proprio quello che stipula con i propri utenti, un contratto che solo le persone adulte hanno l’età legale per accettare.
Niente marmocchi che razzolano fra i risultati delle ricerche, niente date di nascita troppo recenti a caratterizzare gli username di Gmail, nessuna possibilità di generare e postare contenuti su YouTube: Google tiene a precisare che non è possibile utilizzare questi servizi se non si sono accettate le condizioni con cui vengono forniti, e che non è possibile accettare le condizioni qualora non si sia raggiunta l’ età legale per stipulare un contratto, la maggiore età.
Violano dunque la legge i milioni di minori che online si trastullano con i servizi di BigG? È Google stessa a violare la legge quando irretisce i minori in iniziative esplicitamente destinate loro ? BigG, consultata a riguardo, esita e si contraddice: prima spiega che l’accesso a Gmail è consentito ai soli utenti maggiori di 13 anni, poi è costretta a rifugiarsi nell’ammissione che le condizioni di servizio possono essere accettate solo da coloro che siano considerati persone giuridiche dal proprio ordinamento.
Esiste qualche tipo di controllo da parte dell’azienda? Impossibile: il numero di utenti che accede quotidianamente ai servizi Google è tale da vanificare qualsiasi tentativo di vigilare, spiegano da Mountain View: “Prendiamo però provvedimenti, sospendiamo l’account dell’utente, nel momento in cui apprendiamo che qualcuno stia violando i nostri Terms of Service”.
Google istiga i pargoli a intrattenersi nel proprio paese dei balocchi, ma si era resa protagonista di una tentata appropriazione delle opere dell’ingegno dei propri utenti: lo scivolone era contenuto nelle condizioni di utilizzo delle Google Apps, condizioni che avrebbero dovuto consentire lo sharing fra diversi utenti dei documenti elaborati con le applicazioni Google. Ora l’EULA è stata adeguatamente modificata per incutere meno paura.
Nella stessa vampiresca espressione legalese è inciampata Adobe: nell’EULA sottoposta all’attenzione dell’utente del nuovo arrivato Photoshop Express , Adobe costringeva a garantire all’azienda “il diritto mondiale, non esclusivo, perpetuo, irrevocabile, privo di royalty e trasferibile a terzi, di distribuire, trarre profitto o altre tipi di remunerazioni, riprodurre, modificare, adattare, pubblicare, tradurre, eseguire e esporre in pubblico” il contenuto prodotto dagli utenti. In questo modo l’azienda sarebbe stata autorizzata a lasciare che gli utenti condividessero le proprie creazioni attraverso il servizio.
Nessuna intenzione malevola si celava sotto l’ EULA di Adobe : l’azienda ha dunque prontamente ammesso l’errore, promettendo di chiarire e snellire le minacciose richieste alle quali l’utente è costretto ad accondiscendere per utilizzare Photoshop Express. Ma gli utenti sembrano non temere : la diffidenza nutrita nei confronti delle condizioni di utilizzo dei servizio è diventata indifferenza .
Gaia Bottà