Google vuole cambiare il mondo. Sono parole del CEO Eric Schmidt, parole che disegnano grandi ideali e grandi impegni, parole che scaldano gli animi e attizzano un dibattito mai sopito. Sono progetti in grande stile quelli che Schmidt ha rivelato in un’intervista rilasciata al New Yorker a margine di un evento organizzato dalla Syracuse University Newhouse School of Public Communications . L’obiettivo di Google, azzarda Schmidt, “non è monetizzare qualunque cosa, l’obiettivo è cambiare il mondo”. La strategia del colosso di Mountain View non è guidata dal vile denaro, non è innescata dalla prospettiva del profitto: “Non partiamo dalla monetizzazione. Partiamo dai problemi che abbiamo”.
Il riferimento di Schmidt corre a nobili questioni, a problemi di vasta scala come l’ organizzazione delle informazioni che si scambiano sulla superficie del globo terracqueo, questioni per le quali Google si è aggiudicato 50mila dollari e i complimenti della fondazione Principe delle Asturie. “Considerato il miglior motore di ricerca di tutti i tempi – questo l’elogio della Fondazione – Google consente a milioni di utenti in tutto il mondo di accedere ad un universo di conoscenza e di informazione in maniera rapida e immediata”. Ma se il premio è stato accolto con favore da BigG, meno entusiasti sono stati i cittadini spagnoli, che non hanno esitato a sottolineare lo stridore fra un riconoscimento tanto prestigioso e le numerose occasioni in cui la condotta di Google non è stata irreprensibile , non ha coinciso con quella che dovrebbe caratterizzare il vincitore del primo premio per la comunicazione e le discipline umanistiche.
Google ha sempre sostenuto, lo ha ribadito Schmidt al New Yorker , di portare avanti una battaglia per garantire democraticamente l’accesso all’informazione a tutti i cittadini della rete e del mondo, spesso impossibilitati a prendere parte responsabilmente alla società civile perché colpiti da asimmetrie informative create affinché “le persone non sappiano cosa sta succedendo”. Ma Google ha spesso rifiutato di prendere posizione sulla questione dei diritti umani, è spesso sceso a compromessi nel nome della propria reputazione, non di rado ha agito in maniera risoluta per tutelare i propri segreti .
Le pompose dichiarazioni di intenti di BigG, la voglia di cambiare il mondo ben collimano con le dichiarazioni programmatiche che scaturiscono dai vertici dell’azienda: Google ha recentemente dichiarato di voler supportare delle leggi federali che negli States tutelino più efficacemente cittadini che rischiano di doversi rassegnare ad una privacy deprivata . Ma, nel contempo, Google parrebbe riluttante a compiere un passo di minime proporzioni, alla pubblicazione di un semplice link alla propria policy sulla privacy in home page.
Per il CEO di Mountain View è un obiettivo di fondamentale importanza anche lanciare un salvagente al mondo dei media , offrire all’industria della stampa un’occasione di rifarsi dalla crisi che la affligge: “è un enorme imperativo morale” ha annunciato Schmidt. A garantire ai giornali un poco di sollievo dalla crisi nella quale dicono di versare, ci sarà la piattaforma pubblicitaria che scaturirà dall’ integrazione con DoubleClick .
Google ammette di dominare nel settore dell’advertising testuale legato alla ricerca, e sottolinea come Yahoo resti leader nel display advertising. Un mercato che a parere di Schmidt offre più opportunità, un mercato scelto dalle grandi aziende per consolidare i propri brand, un motivo per cui Schmidt auspica che Yahoo non venga fagocitata da Microsoft. Ma per Google il tentativo di ridimensionare la propria posizione sul mercato dell’advertising potrebbe risultare impossibile con l’integrazione con DoubleClick: a ricordarlo è l’Unione Europea che pur avendo approvato l’acquisizione, non rinuncia a marcare stretto il colosso di Mountain View.
Ma a temperare le preoccupazioni dell’Unione Europea pensa Schmidt: a parer di Google la competizione non è una caratteristica dei mercati maturi . Mountain View punta piuttosto alla coopetition, una situazione in cui non c’è un unico vincitore ma un ecosistema di cooperazione e competizione dal quale possono trarre vantaggio numerosi attori.
L’Unione Europea non potrà però contare sulla buona condotta programmatica di Google: don’t be evil , il motto con cui per anni si è ritenuto che Google volesse imbellettarsi, non è una dichiarazione di intenti . Schmidt ha rivelato che è piuttosto un mantra ad uso interno, un modo per pungolarsi e interrogarsi riguardo alla sostenibilità delle proprie azioni. “Non abbiamo un evilometro” confessa Schmidt: il metro di ciò che è giusto e sbagliato sembra risiedere nell’azienda stessa, nel dibattito che scaturisce fra i suoi membri.
Schmidt ricorda un episodio che esemplifica il ruolo del motto aziendale, una sorta di pulsante d’allarme da pigiare nei momenti di incertezza: era il 2001 quando si discuteva di strategie pubblicitarie e un ingegnere è balzato dalla sua posizione raggelando la sala riunioni. “Questo è male”, ha sentenziato. Schmidt ricorda che l’esclamazione ebbe un impatto impressionante: “Come una bomba gettata in mezzo alla sala. Tutto si è fermato. Ciascuno si è impegnato in un dibattito di natura etica e morale che è sfociato nel blocco del prodotto di cui si stava discutendo”. Un buon presupposto per cambiare il mondo.
Gaia Bottà
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