Wellington (Nuova Zelanda) – Senza che quasi nessuno se ne accorga, il termine hacking sta perdendo il suo significato originario, come testimonia ulteriormente una proposta di legge avanzata in queste ore in Nuova Zelanda. L’uso insistito della parola hacking per indicare azioni di cracking che hanno sollevato grande scalpore, a lungo andare ne va storpiando il senso.
Accade così che una norma pensata per bollare come crimine l’irruzione violenta in un server internet, la sottrazione di dati contenuti nei computer assaltati o la modifica di pagine di siti web, si trasformi in una legge antihacking, sebbene l’hacking non abbia davvero granché a che fare con azioni del genere. Azioni che sono, appunto, compiute da crackers.
A quanto si è appreso, l’idea delle autorità neozelandesi, in particolare del Governo che va spingendo per una legge ad hoc in Parlamento, è quella di prevedere pene detentive fino a due anni per una serie di atti di cracking fino ad oggi non perseguiti dalla legislazione del paese. Ci vorrà comunque del tempo prima che il Crimes Amendment Bill, oggi in esame in Commissione, si trasformi in una normativa “antihacking” dello Stato.