Ormai la questione è arcinota: sebbene il sopraggiungere di Internet nella routine quotidiana abbia offerto nuove modalità di comunicazione, apprendimento e facilitazioni nella gestione di attività ordinarie, molte sono le discussioni in materia di privacy e diritto alla riservatezza sollevate dall’abitudine alla Rete. Ne sanno qualcosa alla prestigiosissima università di Harvard, dove alcuni ricercatori sono finiti al centro di una polemica per aver analizzato i profili Facebook degli studenti a scopo di studio, ma senza consenso.
Nel 2006 il team di ricerca, composto da quattro sociologi appartenenti alla storica Università del Massachusetts e da un ricercatore proveniente dalla University of California, ha condotto uno studio che mirava a costruire un archivio di ricerca per l’area delle scienze sociali attraverso la raccolta di dati concernenti la razza, l’etnia e la salute pubblica . Nulla di male, se non fosse che ora ci si chiede come tali dati siano stati prelevati .
Lo studio , che intendeva osservare l’evoluzione dell’amicizia e degli interessi nel tempo, ha presentato una fase operativa relativa all’ analisi di 1700 profili Facebook appartenenti agli studenti universitari . L’evoluzione della ricerca si è ben presto trasformata in una questione di privacy e riservatezza, dopo aver scoperto che, attraverso i dati pubblici, era possibile risalire all’identità degli individui coinvolti . I ricercatori sono dunque stati accusati di aver violato la privacy degli studenti.
Sebbene, infatti, gli account scaricati risultavano provenire da un’università “anonima”, i dati fornivano agli studenti “amici” l’accesso ai profili lasciati aperti entro il network di Facebook interno ad Harvard, ma non all’esterno. Di conseguenza, le informazioni prelevate dal social network sono state ben presto identificate come appartenenti alla classe 2009.
Il collasso del sistema di tutela dei dati ha dunque sollevato una questione etica che appare particolarmente intricata e, per questo, di non facile soluzione da parte di chi si occupa di studiare i social network e altri ambienti online. I sociologi autori della ricerca sostengono che i dati prelevati dagli account in blu degli studenti sono carichi di benefici per la ricerca scientifica e che tutti gli sforzi possibili sono stati compiuti per tutelare la privacy. Jason Kaufman, capo del progetto di ricerca e ricercatore presso Harvard’s Berkman Center for Internet & Society, ha sottolineato che i dati raccolti sono stati redatti in modo da minimizzare i rischi di identificazione.
Secondo Michael Zimmer, docente di diritto ed esperto di privacy presso l’Università del Wisconsin, colui che ha messo in luce “il lato oscuro” della ricerca sociologica di Harvard, il caso dimostra che c’è ancora molto lavoro da fare per far sì che le ricerche siano condotte correttamente, secondo metodi che non compromettano i soggetti analizzati.
Cristina Sciannamblo