Mentre si attende di conoscere le evoluzioni del caso USA vs. Huawei che vede la società cinese ancora oggetto dell’inclusione nella Entity List statunitense, il Washington Post e 38 North pubblicano un report che potrebbe causare qualche altro grattacapo al colosso di Shenzhen. Si parla questa volta di Koryolink, unico operatore mobile attivo in Corea del Nord, così come della realizzazione dell’infrastruttura gestita nel paese di Kim Jong-un.
Il network mobile Koryolink
Stando alle informazioni raccolte, Huawei avrebbe partecipato alla realizzazione del network, attivo fin dal dicembre 2008, in collaborazione con l’azienda Panda International Information Technology (PIIT) controllata da Pechino. La partnership avrebbe preso il via in seguito alla visita del dittatore Kim Jong Il presso il quartier generale della società risalente al 2006, proseguendo per almeno i successivi otto anni, attraverso la fornitura delle infrastrutture per la connettività nonché degli strumenti necessari alla gestione e alla crittografia delle informazioni trasmesse.
Koryolink nasce dalla partnership tra Korea Posts and Telecommunications (KPTC) e Orascom Telecom, quest’ultima un gruppo egiziano che opera in diversi paesi emergenti e che controlla il 75% di Cheo Technology, azienda gestrice del brand (la quota restante è di KPTC).
Già in passato l’attività del network è stata oggetto di critiche provenienti un po’ da ogni parte, per via delle restrizioni applicate agli utenti, ad esempio rendendo impossibile effettuare telefonate internazionali oppure navigare liberamente in Rete (nel 2016 erano 28 i siti raggiungibili). Paletti meno stringenti invece per i visitatori, forse per questioni legate alla volontà di proiettare all’esterno dei confini un’immagine non esattamente fedele a quanto accade a Pyongyang e dintorni.
Huawei avrebbe inoltre partecipato alla fase di test di un sistema crittografico utile per impedire il monitoraggio delle conversazioni messo a disposizione esclusivamente di coloro che si trovano ai vertici del paese, così da verificarne l’efficacia. Il software sarebbe stato fornito da PIIT.
Washington Post e 38 North fanno poi riferimento a un’infrastruttura di sorveglianza allestita in modo da consentire alle autorità locali di intercettare chiamate, messaggi, email, traffico dati e persino fax. Una tecnologia in grado in un primo momento di monitorare fino a 2.500 persone in contemporanea, numero poi salito a 5.000. Non è dato a sapere se la portata sia oggi ulteriormente cresciuta. Ci sono in ogni caso report che segnalano attività come la cattura random di screenshot dagli smartphone degli utenti.
Lo smartphone Pyongyang 2425
I dispositivi in circolazione in Corea del Nord non sono quelli Android o iOS che troviamo sugli scaffali dei nostri store, bensì modelli realizzati e configurati ad hoc. Il più recente prende il nome di Pyongyang 2425. Queste le specifiche tecniche: display da 6,2 pollici con risoluzione Full HD+ e notch, modulo WiFi, chipset MediaTek MT6771, 8 GB di RAM, memoria interna da 32 GB per lo storage, jack audio da 3,5 mm e batteria da 3.050 mAh. Il sistema operativo è basato su Android 8.1 Oreo, ma senza Play Store e con accesso limitato ad alcune applicazioni approvate.
La replica di Huawei
La replica di Huawei non si è fatta attendere, con la società intervenuta sulle pagine del Washington Post per sottolineare come il gruppo non sia presente con il proprio business in Corea del Nord. Il portavoce parla al presente, senza riferimento al passato e senza confermare né smentire quanto emerso. Ad ogni modo, la portata di Koryolink nel paese sembra essere stata ridotta di recente in seguito all’accensione del network Kang Song basato sull’infrastruttura fornita da ZTE. Stando alle informazioni disponibili, Huawei e PIIT non sono più presenti a Pyongyang fin dalla prima metà del 2016, dove prima avevano degli uffici.
Tecnologia USA in Corea del Nord?
Nel caso in cui le voci dovessero trovare conferma, potrebbero esserci conseguenze non solo a livello di reputazione. Addetti ai lavori consultati dalle dal Washington Post affermano che per l’allestimento della rete potrebbe essere stata impiegata componentistica di provenienza statunitense. Nei confronti di PIIT vige fin dal 2014 un ban che impedisce all’azienda di acquistare apparecchiature dagli USA.
L’attività si configurerebbe come una violazione del blocco alle esportazioni se uno qualsiasi degli apparati forniti include almeno il 10% di sistemi americani. Si parla inoltre di un riferimento alla Corea del Nord mai esplicito né diretto nella documentazione interna a Huawei e relativa ai lavori, con il paese identificato come A9. A Iran e Siria sono stati attribuiti codici simili.
Non è dato a sapere se quanto emerso avrà un peso nelle decisioni che il Dipartimento del Commercio statunitense sarà chiamato a prendere a breve: in gioco c’è il rilascio di nuove licenze temporanee per consentire a Huawei di continuare a collaborare con chipmaker e fornitori USA, nonché un pronunciamento sull’inclusione del gruppo nella già citata Entity List. Ricordiamo che la scadenza ultima prima dell’effettiva entrata in vigore del ban rimane al momento fissata per il 19 agosto.