Milano – Quando arrivi a Shenzhen (a proposito, si pronuncia sciengien ) ti aspetti di trovare una città di provincia fatta di casermoni, frotte di lavoratori appiedati, smog e ogni altro stereotipo associato alla Cina della produzione di massa. In testa hai le storie dei lavoratori di Foxconn , e lo spauracchio dello sfruttamento a cottimo che siamo abituati a sovrapporre alle fabbriche che sfornano i nostri cellulari e i nostri tablet: bastano pochi minuti nella città, incastonata in una bella baia del sud della Cina, per demolire almeno parte di questi pregiudizi.
Shenzhen è una città moderna, che ricorda come è ovvio ogni altra metropoli asiatica: ha qualcosa di Tokyo, qualcosa di Seoul, ha qualcosa persino di grandi città europee soprattutto in certa architettura ambiziosa che costituisce l’ossatura dei nuovi poli di attrazione cittadini, dalle fiere espositive ai centri commerciali, dalle decine e decine di grattacieli che continuano a spuntare come funghi in tutta la città, fino ai mega-condomini tutti ben tenuti che si sviluppano per chilometri e chilometri a partire dai vari centri cittadini, costituiti da alcune direttrici dello shopping e dai campus delle grandi aziende che qui hanno il loro quartier generale. Per strada circolano vetture europee, tutte piuttosto recenti, lungo arterie da non meno di 5 corsie che risentono del traffico come qualunque altra megalopoli da 15 milioni e oltre di residenti.
Sono a Shenzhen per visitare il campus di Huawei, ed è anche questa una sorpresa: ti aspetti un edificio essenziale, funzionale, e invece entri in un comprensorio che potrebbe ancora trovarsi in Nordamerica o nel nord dell’Europa . Spendere l’abusata espressione “silicon valley cinese” è questione di pochi sguardi: nei palazzi di vetro e acciaio che ospitano ampie sale d’aspetto, enormi saloni-showroom, sale riunioni e uffici, c’è tanta luce e tanta tecnologia all’avanguardia. Nelle parti del campus destinate alla rappresentanza non manca neppure un lago con tanto di pesci e cigni che nuotano indisturbati. Poi arrivi a quella che Huawei chiama la sua university , un’intera sezione del comprensorio dedicata unicamente all’addestramento e al training del suo personale e di quello dei suoi partner, e ti sembra di essere entrato in un’università USA.
Ci sono 45mila dipendenti che ogni giorno si muovono tra i corridoi e lungo i viali di questo campus: tantissimi sono giovani, tanti sono donne , tutti a ora di pranzo sciamano composti verso le caffetterie e i ristoranti che permettono di scegliere il tipo di cucina che quel giorno costituirà il loro pasto in azienda. Anche qui il servizio è impeccabile, all’altezza di un ristorante stellato: a questo punto non resta che stabilire che quello che pensavi di sapere sulla Cina, e sui cinesi e le aziende cinesi, era frutto di un pregiudizio. Punto, a capo.
Huawei è senza dubbio un’isola felice, comunque, anche qui nel paese che cresce del 10 per cento l’anno: la sua struttura societaria insolita, fatta al 98 per cento di azionariato diffuso tra i lavoratori , fa sì che i dipendenti guardino al proprio datore di lavoro in modo diverso. Inoltre Huawei si impegna a cercare di rendere più semplice la transizione scuola-lavoro: oltre alla formazione continua garantita dalla Huawei University, nel campus di Shenzhen ci sono più di 3mila alloggi per altrettanti impiegati, e nei primi tre mesi dopo l’assunzione occuparli è totalmente gratuito. Successivamente l’affitto è calmierato, anche perché i prezzi delle case a Shenzhen sono saliti alle stelle (circa 1 milione di euro per 80 metri quadrati): per questo l’azienda sta costruendo un nuovo campus 60 chilometri fuori dalla città, in riva a un lago, che ospiterà non meno di 60mila dipendenti a cui saranno messi a disposizione tutti i servizi dalla scuola alla palestra, dalla lavanderia alla ristorazione.
Non mancano le ingenuità per un’azienda che, per prima, si sta affacciando dal mercato cinese su quello planetario per diventare un punto di riferimento glamour del “made in China”: in un campus curato fin nei minimi dettagli, con spazi verdi che punteggiano i viali che uniscono i vari palazzi e come detto fornito di tutti i servizi dalla lavanderia alla palestra a disposizione dei dipendenti, la mensa rispetta un rigido orario dalle 12 alle 14. Sembra un controsenso per una multinazionale che ha 170mila dipendenti sparsi ormai su tutti i fusi orari , con molti di questi che sono spesso presenti alla University per training e aggiornamento su nuove metodologie e nuovi prodotti. Ma se arrivi tardi a pranzo, resti senza.
Certo si può ribaltare il punto di vista e considerare che questa non è altro che disciplina: disciplina che non significa obbedienza a un rigido protocollo che può sembrare innaturale agli occhi di noi europei, quanto piuttosto un approccio pragmatico a come affrontare il lavoro e far rendere ciascuno al meglio delle proprie capacità . Dunque non c’è niente di male se dopo pranzo arriva il classico momento di appannamento: non è raro vedere i dipendenti prendersi una pausa nelle aree comuni, visto che ciascuno è pronto a trattenersi un’ora o due in più per recuperare a fine giornata, o per coordinarsi con i propri colleghi all’estero.
Una parola che usa spesso il nuovo general manager di Huawei Consumer Italia James Zou, nel corso di una chiacchierata fatta con i giornalisti in visita al campus, è “execution”: difficile tradurre letteralmente questo concetto dall’inglese, ma potremmo dire che è una via di mezzo tra “svolgimento” e “attuazione” e calza bene a questa situazione. Huawei non ha problemi a svelare a tutti, concorrenti cinesi compresi, le proprie metodologie di business : la differenza sarà tutta nella execution ci spiega Zou, nella capacità cioè di Huawei e della sua forza lavoro di fare di più e meglio grazie all’esperienza, alla determinazione e l’impegno.
Ci sono dei numeri che devono far riflettere, e che danno pienamente la misura di cosa stiamo parlando: ogni anno in tutta la Cina completano il percorso universitario circa 6 milioni di persone . Ogni anno si unisce alla schiera dei lavoratori cinesi un blocco di 6 milioni di individui con cultura superiore, che probabilmente non sarà omogenea in tutta la nazione e potrebbe risentire anche di qualche lacuna rispetto alle più antiche università europee e nordamericane. Tuttavia su 6 milioni di individui ogni anno (saranno 24 milioni da qui al 2020, senza contare il pregresso: 24 milioni di neolaureati, la maggior parte in discipline tecniche), non è improbabile riuscire a selezionare 20mila o 30mila teste da assumere e che costituiscano il meglio del meglio di quanto c’è su piazza.
Se ciò non bastasse, c’è l’accademia interna. Il fondatore dell’azienda Ren Zhengfei e tutto il management si mettono periodicamente a disposizione per tenere lezioni nell’University del campus di Shenzhen, impegnati a fornire spunti, dritte, esperienza e indicazioni operative ai propri azionisti-dipendenti. A conti fatti, quindi, siamo ben lontani da un’azienda che non si dedica ad altro che copiare le tecnologie altrui: il 50 per cento del personale Huawei, parliamo quindi di circa 80 o 90mila persone, è impegnato a vario titolo nella ricerca e sviluppo , e il 10 per cento del fatturato annuo (viaggiamo nell’ordine dei 60 miliardi di dollari l’anno, quindi non meno di 6 miliardi) viene investito direttamente in R&D, l’1 per cento in ricerca pura.
A Shenzhen visito un altro laboratorio, questa volta in un palazzo in centro città, interamente dedicato allo studio delle tecnologie più avanzate per la realtà virtuale o aumentata: chi lavora qui ha il compito di provare, analizzare, valutare tutto quanto c’è in giro e costituisce lo stato dell’arte, per poi offrire consulenza a chiunque in azienda abbia bisogno di informazioni sull’argomento. Non si tratta di copiare, o di effettuare il reverse engineering delle proprietà intellettuali altrui: lo scopo fissato è quello di conoscere pregi e difetti delle soluzioni già disponibili sul mercato, così che si possa lavorare a qualcosa di meglio se e quando sarà il momento giusto per farlo.
Per capire qualcosa di più di questo aspetto, a Shanghai nel polo della ricerca di Huawei incontro assieme ad altri giornalisti il responsabile dello sviluppo degli smartphone della linea P e Mate: ovvero i device più importanti che ogni anno Huawei sforna per il mercato mondiale, e che produce e assembla in proprio per garantirne la qualità. Sim Wang, vicepresidente con una lunga esperienza nella progettazione di device, chiarisce un punto cruciale dell’approccio Huawei a questo mercato: ci sono molte tecnologie che sono pronte nei laboratori ospitati nel campus dove ci troviamo (se possibile questo campus è ancora più esclusivo di quello di Shenzhen, forse complice le dimensioni leggermente inferiori), ma non tutte trovano spazio subito nei telefoni presentati al pubblico semplicemente perché non garantiscono un guadagno significativo in termine d’esperienza utente , a fronte del costo da sostenere per equipaggiarle.
Nel corso di un normale ciclo di progettazione di uno smartphone, che per Huawei dura circa 15 mesi, vengono prese in considerazione moltissime tecnologie e soluzioni anche basandosi sulle richieste del mercato. Solo alcune però trovano spazio nel prodotto finale: i casi più evidenti sono quelli della fotocamera Leica e del caricabatterie SuperCharge, due elementi che sono la soluzione scelta da Huawei per offrire qualcosa di più in termini di fotocamera principale e di gestione dell’autonomia sui suoi flagship. Ci sono tante altre scelte che determinano il prodotto finale, ad esempio quale sistema operativo adottare: Android costituisce una buona base di partenza, spiega ancora Wang, dunque vale la pena partire da quello per sviluppare l’interfaccia EMUI con la quale offrire un’esperienza utente ottimizzata agli acquirenti dei telefoni Huawei.
C’è poi un altro aspetto cruciale da considerare: nel corso degli ultimi anni chiunque producesse telefonini e apparati di rete ha gradualmente scelto di scindere le due attività . Prima Ericsson, poi Alcatel, poi ancora Nokia e così via: Huawei è rimasto l’unico player a produrre fatturato sia creando gli apparati che costituiscono fisicamente la rete telefonica fissa e mobile, sia vendendo smartphone, tablet, modem. In più l’azienda è impegnata attivamente nella definizione dello standard 5G, così come ha lavorato nella definizione del 4G e delle sue evoluzioni: e questo, ce lo spiega Wan Biao che è il vicepresidente della divisione MBB (tutto ciò che è mobile ma non è smartphone), è un vantaggio competitivo unico per diversi motivi.
Huawei punta a competere con Samsung ed Apple ad armi pari: oltre ai suoi smartphone i suoi ingegneri disegnano anche i processori ARM che li equipaggiano, i Kirin, esattamente come fa la coreana con l’Exynos e la statunitense con i vari A8, A9 e A10. Questo significa avere controllo completo sulla piattaforma hardware, con in più il vantaggio di conoscere a menadito anche cosa c’è dall’altra parte: gli stessi ingegneri, magari non proprio gli stessi ma dei colleghi dei primi, progettano gli apparati che costituiscono l’ossatura della maggioranza delle reti mobile mondiali per le quali ormai Huawei è un leader riconosciuto dal mercato. E questo significa poter provare in anticipo tutte le soluzioni che ci condurranno nel giro di pochi anni verso il traguardo del gigabit in mobilità, e poi oltre con il 5G che addirittura Huawei vorrebbe anticipare al 2018 invece di attendere fino al 2020.
Nel frattempo altri colleghi di questi ingegneri lavorano ad altri prodotti per la domotica, per l’automazione, per tutto quanto costituirà la presente e la futura Internet delle cose (IoT): sempre a Shanghai vediamo un prototipo di casa connessa in cui tutto, dalla lampadina alla porta di casa, dal ventilatore al televisore, si controlla direttamente dallo schermo dello smartphone o con la voce. E se per alcuni componenti Huawei non nasconde di appoggiarsi a prodotti di terze parti, il collante di tutto questo è la sua piattaforma HiLink appositamente sviluppata. Se ancora tutto questo non bastasse, sono già in corso le trattative per la fornitura di una piattaforma chiavi-in-mano per l’automotive con importanti partner europei che saranno annunciati presto.
L’impressione che si trae dopo aver camminato per i campus di Huawei, aver parlato con i suoi dipendenti e aver osservato pure i blindatissimi laboratori dove vengono testati e torturati i cellulari che poi finiranno in vendita, è che questa sia un’azienda con un percorso molto chiaro in mente e con ambizioni molto alte. Liquidare Huawei, che ripetiamo è solo la capofila di un’ondata che sta per abbattersi sul mercato mondiale, semplicemente come una “azienda cinese” sarebbe un errore : siamo davanti a una multinazionale con 30 anni di storia alle spalle, che ha appena iniziato il suo cammino nei mercati occidentali (almeno per quanto attiene il lato consumer) ma che in pochi anni è già riuscita a rendersi perfettamente riconoscibile. E punta entro due anni a guadagnare la prima posizione nelle classifiche di vendita di smartphone (la redditività è un altro discorso, ma si fanno passi in avanti anche in quel senso).
Esattamente come rivelano i suoi smartphone, Huawei procede con passo costante e con un’accelerazione uniforme : il P8 e il Mate S del 2015 erano prodotti interessanti che pagavano qualcosa ancora in termini di prestazioni assolute rispetto alla concorrenza; il P9 e soprattutto il Mate 9 appena annunciato se la giocano alla pari con tutti, anzi il nuovo Kirin 960 pare essere il più potente processore ARM sulla piazza al momento. Il Mate 9 è già oggi uno smartphone LTE Cat.12, ovvero capace di 600Mbit in download aggregando 4 bande: se Huawei l’ha lanciato sul mercato con queste capacità è perché sa che in determinate nazioni le reti di alcuni operatori sono già pronte o stanno per fare il salto, e lo sa perché quelle reti probabilmente si appoggiano ai suoi apparati.
Infine c’è un elemento fondamentale di cui tenere conto quando si parla di Huawei: per quanto in fretta cresca e stia crescendo, le radici di questa multinazionale restano saldamente ancorati al modo cinese di intendere gli affari . A volte questo costituisce un limite, per esempio nella rigidità nelle situazioni in cui il business richiederebbe flessibilità, ma dall’altra parte diventa un’arma: Huawei non deve rendere conto alla Borsa o agli investitori per le trimestrali, sono i suoi dipendenti i suoi azionisti, e dunque può operare scelte lungimiranti che ripaghino anche nel medio-lungo periodo. Basterà questo? Probabilmente no, non da solo, e ci vorrà anche una buona dose di fortuna: ma è arrivato il momento per smettere di considerare le aziende cinesi come semplici fotocopiatrici, e iniziare a prendere seriamente in considerazione la capacità e la spinta che arriva da Pechino, soprattutto se si intende continuare a fare affari in questo settore.
Luca Annunziata