In anni passati chi ha vissuto in Rete mentre Zimmermann, i Cypherpunk ed ACTA erano argomenti caldi, nutrendosi di pane, Nutella, caffè, Apple ][e, Gibson e Sterling, ha sviluppato, spesso in maniera irreversibile, un approccio paranoico alla vita. Per questi giovani vecchi (o vecchi giovani?) la logica conseguenza è stata quella di rifuggire tecnologie e comportamenti sempre più pervasive e sempre più diffusi. E siccome le une e gli altri rappresentano forme di comunicazione, il risultato è stato un più o meno accentuato isolamento dei paranoici in isole nella Rete (qualcuno ha detto Darknet?), spesso formate da poche o pochissime persone. A molti di essi è venuto prima o dopo il dubbio di essere come il soldato giapponese che, rimasto solo nell’atollo, continua a combattere la sua guerra personale. In Rete si tratta di una guerra che, contrariamente alla II Guerra Mondiale, non è finita, ma solo cambiata da “mondiale” a “personale”.
Per la mia generazione di cittadini della Rete credo che quanto sopra sia perfettamente chiaro, ma almeno a 20 o 21 dei miei 24 lettori potrebbe invece venire il dubbio che Cassandra spolveri il pane e Nutella di acidi di sintesi; così non è, si tratta solo di calembour espositivi per insistere sempre sui soliti, veritieri ed importanti argomenti senza addormentare nessuno.
Beh, quasi nessuno.
Tu, laggiù, sveglia!
Per i giovani vecchi della Rete era evidente che quello che stavano facendo nottetempo, attaccati ad accoppiatori acustici, Itapac, modem dal pigolio sempre più acuto, ADSL e telefonini, era di riversare una parte di sé stessi in Rete: per molti era un gioco, ma è proprio giocando che alcuni abili, capaci e fortunati esseri umani fanno cose grandi.
Valeva sempre la pena, aggirandosi tra i labirinti rigorosamente solo testuali della Rete, fermarsi per leggere ogni graffito lasciato dal viaggiatore precedente. Ne valeva la pena ma diventava sempre più difficile, quasi impossibile. Già prima del Web la sola USENET dei newsgroup era sufficiente par mandare in overflow informativo chiunque approcciasse la Rete in forma chiusa, come un libro da leggere da copertina a copertina. Ognuno è sopravvissuto a questo shock informativo a modo suo, riportando il flusso informativo a livelli sopportabili, selezionando, scegliendo e limitando i suoi interessi, o anche, rozzamente e spietatamente, il tempo che poteva dedicare alla Rete. Non credo che l’orrore ed il senso di perdita che si provava ad essere costretti a segnare come già letti centinaia di post mai aperti possa essere spiegato in termini razionali.
La costruzione del proprio Io digitale e magari anche di personalità alternative in Rete era prò considerato, dalle persone “analogiche”, solo un apprendimento di nuove abilità, un semplice empowerment personale. Grazie alle letture dei classici del Cyberpunk e di scrittori come Jean Baudrillard o Andrew Keen, oppure alla semplice pratica quotidiana della ricerca tecnologica e scientifica, i cittadini della Rete avevano invece perfettamente chiaro che non si trattava di quello che appunto Keen chiama “egosurfing” ma piuttosto di una vera crescita dell’Io, e di un suo parziale trasferimento in Rete.
Una definizione semplice dell’Io è “ciò che ci distingue dagli altri e del mondo”, e l’espansione ed il trasferimento in Rete è semplicemente una trasformazione ed una crescita. Ma anche la fantascienza degli anni ’80 era già andata più avanti della realtà, prevedendo mondi in cui coscienze singole si trasformano in coscienze collettive, oppure in cui l’esistenza nel “mondo reale” è solo un’illusione che nasconde una realtà di sfruttamento e di passività. La situazione di oggi non è poi così dissimile, non sono alieni o supercomputer che ci hanno portato in una situazione in cui la fusione degli Io digitali in un unico essere amorfo fatto di relazioni artificiali e forzate è stato imposto. Sono invece stati i “(…) capitalisti d’assalto che sfruttano coloro che regalano la propria vita in cambio di un piccolo sollievo alla loro immensa solitudine”, come con mirabile sintesi ha scritto nel forum della scorsa puntata un lettore.
È vero. La solitudine moderna, quello che sentiamo quando dopo un periodo di intenso lavoro in Rete, scrivendo email, chattando ed altro, ti ritrovi a fissare lo schermo ed a renderti conto che sei solo in una stanza con un computer, è un’esperienza da cui tutti siamo passati e che spesso si ripresenta. Ma almeno a Cassandra è sempre stato di immediato conforto il pensare che se stai rispondendo alla mail di un tuo corrispondente o scrivendo qualcosa destinato ad essere letto da altri non sei in realtà solo; semplicemente non sei in grado di vedere con chi stai parlando. Una limitazione certo, una differenza importante, ma ampiamente compensata dalle enormi possibilità comunicative che la Rete offre.
Ciò che invece atterrisce, eppure appare inevitabile, è il prezzo che viene correntemente pagato da chi, per solitudine, per narcisismo o per una necessità di altro tipo (forse solo percepita e non reale) usa Facebook o altri servizi del genere, che fanno incetta di dati personali come loro unico business, e lo fanno nella forma più rapace che le leggi e l’acquiescenza dei loro utenti gli permettono. Questi dati non sono semplicemente il materiale d’archivio del Grande Fratello, anche se indubbiamente troveranno la propria strada per finire nei database dei fornitori (privati) di intelligence delle polizie, dei servizi segreti e di chiunque sia in grado di pagarli di tutto il mondo. Si tratta invece di pezzi del proprio, o peggio dell’altrui sé che fuoriescono dalle nostre dita, dalle nostre fotocamere e telecamere, e finiscono copiati, duplicati, usati, gestiti e sfruttati da altri.
Possiamo dire che fanno ancora parte della nostra identità digitale? Nella definizione precedente no, essendo sparsi nel mondo non ci distinguono più da esso. Ma è anche a pelle che la perdita di identità si percepisce. Nel tentativo di esser popolari, il compulsivo seguire e farsi seguire in un trenino che non porta da nessuna parte. In una omologazione che distrugge proprio quella parte di noi che poniamo in Rete. Una perdita dell’io digitale appunto.
Se proprio dovete faticare per vendere voi stessi, fatelo (con moderazione, alle HR non sono scemi) quando dedicherete ore ed ore a raffinare il vostro curriculum. In Rete invece metteteci la parte di voi stessi che vi sembra migliore e che volete rendere pubblica, e solo quella: in questo modo darete il meglio di voi agli altri e potenzierete il vostro Io invece di dissolverlo nell’entropia della finta comunicazione delle reti sociali.
Marco Calamari
Lo Slog (Static Blog) di Marco Calamari
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