Janet Murray è una signora di mezza età, gentilissima e chiacchierona. È talmente disponibile che quando si parla con lei non si ha la sensazione di star discutendo con una studiosa che è stata definita “una delle maggiori innovatrici digitali e culturali” qualche anno fa dalla rivista Wired .
Anni fa, Janet ha immaginato di avere a disposizione un Holodeck – uno di quei dispositivi nei quali i personaggi di Star Trek guardano delle storie interattive rappresentate olograficamente – e si è chiesta se e come sarebbe possibile mettere in scena l’Amleto di Shakespeare utilizzando quel mezzo tecnologico. La risposta più immediata è che si tratterebbe fondamentalmente di un problema di interattività, ovvero di proiettare l’utente dell’ipotetico holodeck dentro un personaggio della storia e di rappresentare credibilmente tutte le reazioni, comprese quelle emotive ed impulsive, degli altri personaggi.
Questa risposta suona oggi abbastanza datata, ma di fatto negli anni ’90 ha segnato una pietra miliare nella “nobilitazione” dei videogame da passatempo a strumento espressivo: Janet sostiene che come l’invenzione del cinema ha rivoluzionato il nostro modo di raccontare una storia (si potrebbe immaginare un intreccio tipo Pulp Fiction raccontato da un romanziere del 1800?), altrettanto lo sviluppo dei videogiochi avrà conseguenze profonde sulla narrativa dei prossimi decenni.
Gli “autori procedurali”, ovvero i game designer del futuro come li immagina la Murray, saranno in parte scrittori, in parte designer e in parte simili ai dungeon master degli odierni giochi di ruolo “da tavolo”.
Se l’Holodeck è purtroppo un gadget che difficilmente lascerà l’astronave Enterprise ancora per molti anni, d’altra parte esistono già diversi tool più o meno evoluti per la creazione di narrazioni interattive complesse. Infatti, oltre ad alcuni tentativi effettuati a lato di videogiochi più classici, come l’opzione multiplayer di Vampires: Redemption , che permette ad un party di giocare in rete mentre la storia è coordinata da un giocatore-storyteller in carne ed ossa, esistono anche altri software dedicati.
Uno dei più promettenti di quest’ultima categoria è Storytronics , attualmente in fase di alpha pubblica. Chris Crawford, la mente dietro Storytronics, vive nell’Oregon con sua moglie, due cani, dieci gatti, cinque anatre e tre somari, è uno dei decani dell’industria del game design ed ha fondato la Game Developers Conference , evento annuale che ora raccoglie migliaia di partecipanti ma che ha avuto origine nel 1987 con un seminario tenuto nel suo salotto.
Il sistema Storytronics si basa su diversi concetti e tool differenti. Ogni narrazione interattiva è chiamata Storyworld e viene costruita con la utility “Storyworld Authoring Tool”, indicata anche con l’acronimo Swat. Una volta ultimata, la Storyworld viene caricata da un software chiamato Storyteller e viene fruita dagli utenti finali. La narrazione viene portata avanti in un inglese standard semplificato chiamato Deikto, che costituisce sia il canale di rappresentazione delle vicende sia l’interfaccia di comunicazione con l’utente – in maniera simile alle vecchie avventure testuali della Infocom.
Attualmente Swat non è del tutto completo ma è comunque scaricabile sotto forma di alpha-version: sul sito sono disponibili sia dei tutorial per la programmazione di storie che dei forum per discutere aspetti tecnici. Inoltre Chris sta pubblicando online un diario dove tiene traccia dello sviluppo dei primi giochi dimostrativi che sta sviluppando in Storytronics.
La narrazione generata dal sistema Storytronics è, allo stato attuale, completamente testuale. Al contrario, il sistema ABL (A Behavioural Language), sviluppato presso il Georgia Institute of Technology di Atlanta da due collaboratori della Murray, prevede un output grafico. ABL non è ancora pubblicamente disponibile, anche se lo sarà presto in forma gratuita per usi accademici, ma intanto si può scaricare Façade – la prima storia costruita con questo sistema. In Façade si impersona un amico di vecchia data di una giovane coppia che sta litigando: l’idea di fondo è che ogni azione del giocatore possa avere delle ripercussioni profonde sull’evolversi della vicenda e soprattutto influenzare i comportamenti e le reazioni emotive dei due personaggi gestiti dal computer.
In definitiva, i “ludologi narrativisti” – gli studiosi del gioco seguaci della Murray – prevedono che in futuro il mestiere dei game designer sarà sempre più simile all’organizzazione di una sessione di gioco di ruolo in cui i narratori devono curarsi più della psicologia, delle emozioni e delle reazioni dei personaggi piuttosto che della meccanica di gioco vera e proprio. Un ottimo spunto, si potrebbe dire, per giocare più spesso. E, casomai questa previsione fosse corretta, si potrebbe consigliare agli aspiranti designer di prendere confidenza, oltre che con le utility presentate in questo articolo, anche con qualche buon gioco di ruolo e narrazione: una volta tanto non è necessario citare prodotti americani, perché esiste l’ottimo On Stage ideato dal prof. Luca Giuliano de La Sapienza di Roma.
Gabriele Ferri
G.F., semiotico dell’interazione, è co-fondatore di Studio Semioticamente