I sottodomini virtuali non sono brevettabili

I sottodomini virtuali non sono brevettabili

Impossibile rinchiudere in un brevetto quello che appartiene a tutti, e magari è scaturito da discussioni intessute in rete
Impossibile rinchiudere in un brevetto quello che appartiene a tutti, e magari è scaturito da discussioni intessute in rete

I sottodomini virtuali non sono brevettabili: si tratta di un concetto sedimentato nello stato dell’arte, nessuno può rivendicarne la paternità ed arrogarsene il monopolio dello sfruttamento. Il brevetto con cui è stato fissato il concetto dei sottodomini virtuali è stato sospeso dal Patent Office statunitense.

A ottenere il brevetto nel 1999 era stata Ideaflood, azienda che si occupava della sola gestione e compravendita di proprietà intellettuale: aveva depositato presso il Patent Office statunitense la richiesta di brevettare un sistema per assegnare sottodomini virtuali, aveva ottenuto il brevetto nel 2004. E lo aveva messo a frutto senza indugi.

L’azienda si era scagliata contro colossi come LiveJournal e about.com . Le rivendicazioni di Ideaflood si erano abbattute anche su Google, responsabile, a detta del depositario del brevetto, di non avere una licenza per assegnare dei sottodomini che gli utenti della propria piattaforma di blogging avrebbero potuto gestire in autonomia. Ideaflood non aveva racimolato alcunché dalle denunce: i casi erano stati archiviati, o si era raggiunto un accordo che non rendeva più proficuo il brevetto. La gestione del patent era poi passata di mano: a detenere i diritti un’azienda che risponde al nome di Hoshiko.

La labilità del brevetto, già emersa dall’esito dei contenziosi sferrati da Ideaflood, è stata ora confermata dalla decisione dello US Patent Office, che ha temporaneamente revocato il monopolio dello sfruttamento dell’invenzione. Un’invenzione che non si può considerare in alcun modo originale.

A decretare il passo indietro dell’ufficio brevetti statunitense è stata l’azione di EFF: negli scorsi anni Ideaflood è stata nel mirino del Patent Busting Project della Foundation, responsabile di detenere uno dei dieci brevetti più deleteri per l’incedere dell’innovazione . Gli operatori della rete che avessero dovuto offrire servizi assegnando agli utenti dei sottodomini avrebbero dovuto rivolgersi all’azienda e corrispondere le dovute royalty.

EFF ha offerto allo US Patent Office una revisione della prior art , ha dimostrato che l’idea dei sottodomini virtuali non fosse in alcun modo frutto della genialità degli inventori al soldo di Ideaflood, ma che fosse un concetto maturato in precedenza, il cui evolvere è documentato in dibattiti e dibattiti a mezzo newsgroup .

Lo US Patent Office ha decretato che il brevetto ora in capo a Hoshiko non ha senso di esistere: l’azienda potrà chiedere il riesame, potrà potrà rinunciare al brevetto o modificarlo in modo da limitare il campo per non sovrapporsi e ingabbiare idee e concetti che sono un patrimonio comune.

Gaia Bottà

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Pubblicato il
23 gen 2009
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