La vicenda è nota: un gruppo di YouTuber, una macchina di lusso, un incidente fatale. Non vogliamo tornare sui fatti in sé, che in questo momento meritano soltanto totale rispetto per una famiglia distrutta dal dolore. Quel che preoccupa è tutto quel che viene dopo. E quel che è venuto prima.
Nel “dopo”, infatti, è tutto un unanime, sperticato e condiviso (click) sdegno. I ragazzi colpevoli dell’incidente (alias “TheBorderline” su YouTube), sono messi all’indice e la pubblica gogna ha emesso la sua sentenza che nel giro di poche ore è già giudizio generazionale: una generazione persa, una generazione fallita, una generazione che dovrebbe vergognarsi, una generazione fatta di pura apparenza, una generazione che non ha più valori se non quello della ricchezza e dell’esibizione.
Secondo l’assemblea dei boomer non c’è altro da aggiungere: condanna sia emessa perché si stava meglio quando si stava peggio e poi abbiamo già tante altre cose di cui occuparci.
Qualche domanda da porsi
Basterebbe però togliere quel pesantissimo velo di ipocrisia che ricopre questa vicenda per cambiare completamente la prospettiva. Basterebbe semplicemente, ad esempio, andare a tutto quel che TheBorderline erano prima di tutto ciò: un prodotto vendibile, un prodotto fruibile, un prodotto sponsorizzabile, un prodotto virale. Una piattaforma che spinge, una massa che clicca, brand che ne sposano le iniziative. Un meccanismo che funziona e che fattura, che macina like e che occupa il tempo e le bacheche dei ragazzi.
Quel che prima era buono e valido, dopo non lo è però improvvisamente più: si passa così dal plauso generale all’ostracismo più serrato, girando un coro di successo in una arringa senza appello. Come nulla fosse. In tutto ciò sembra essersi smarrito qualcosa: una palette di valori di riferimento. Non c’è più cornice alcuna entro cui ascrivere i giudizi etici, se non quelli sgangherati dell’indignazione del momento e del j’accuse social-condiviso.
Poniamoci allora qualche domanda per tentare di vedere l’intera vicenda in una diversa prospettiva. Ognuno potrà rispondere per sé.
Quando uno sponsor sceglie i propri testimonial, guarda ai follower o ai messaggi veicolati? Quando sceglie i contenuti da affiancare al proprio brand, guarda al messaggio o ai KPI di breve corso?
Quando una piattaforma mette in fila i reel da promuovere guarda alle performance o alla bontà del prodotto editoriale complessivo? Pesa la qualità del prodotto o conta i secondi di permanenza?
E quando uno stuolo di ragazzini segue questi canali va colpevolizzato come generazione, o forse bisogna tornare ad accompagnare il percorso di crescita dei singoli come individui pensanti che devono costruire una valida capacità di discernimento? Bisogna vietare e regolamentare, o forse bisogna tentare di costruire riferimenti valoriali perduti? Si può davvero combattere fenomeni come il cyberbullismo (ad esempio) in contesti in cui le nuove generazioni vedono costantemente premiata la visibilità a-tutti-i-costi e puntualmente eclissato l’impegno sociale?
Dopo quanto accaduto, i mille influencer che emulano questo modo di produrre contenuti troveranno una qualche forma di sanzione sociale, oppure continueranno sulla scia di un modello che gli algoritmi danno per vincente promuovendone ulteriormente la visibilità e le conversioni?
Dov’è il merito? Dov’è il valore?
L’incidente di Roma non fa altro che mettere in ulteriore risalto le stonature di un sistema che ormai privilegia i numeri a qualunque altro valore: 260 mila follower su TikTok autorizzano a dire qualsiasi cosa, milioni di visualizzazioni su YouTube autorizzano a provare qualsiasi challenge, ma in nessuno di questi casi c’è mai un giudizio di valore che accenda il senso critico di chi produce, di chi fruisce, di chi sponsorizza e di chi ospita. Nessuno se ne sente responsabilizzato: i messaggi vengono lanciati come bit nel vento, li si lascia viaggiare e se ne raccolgono i frutti ognuno a modo suo: in visibilità, in denaro o in ritorno promozionale. Del resto chi guadagna visibilità può guadagnarsi la supercar e sminuire chi non se la può permettere: attenzione, perché questo messaggio è già stato veicolato recentemente da altri “influencer” (“Se guadagnate 1300 euro al mese la colpa è vostra“) e sta diventando un mantra sufficientemente radicato per poter essere derubricato a semplice coincidenza. Il denaro, ancora una volta e mai come ora, è al centro del villaggio come unica forma di scambio e di giudizio valoriale:
Non siamo ricchi ma ci piace spendere per farvi divertire a voi! Tutto quello che facciamo si basa su di voi, più supporto ci date più contenuti costosi e divertenti porteremo, tra sfide, challenge e scherzi di ogni tipo cercheremo di strapparvi una risata in ogni momento
Quando tutti ci guadagnano, quindi, perché fermare la giostra? Poi però la giostra si ferma d’improvviso con un terribile crash e ci si rende conto che non siamo nel metaverso, ma in un mondo reale dove i follower pesano come bit – nulla – le persone contano – fatte di carne e di sensibilità.
“Colpa dell’algoritmo“, si dirà: del resto è l’unico a non avere una coscienza – quindi ne uscirebbero tutti assolti. Le indagini stabiliranno le responsabilità, ma in parallelo c’è un intero sistema a dover fare i conti con la propria coscienza. Partendo almeno da una riflessione sulla quale rileggere tutti gli assunti su cui questo bellissimo Luna Park mediale è stato costruito: i valori hanno ancora un valore? Anche qui, ognuno può dare la propria risposta. Purché intellettualmente onesta, purché umanamente sincera. Purché non ci si escluda automaticamente dalle responsabilità, come sempre, come tutti.
Pollice basso, pollice alto. No, niente giudizi, meglio non porsi domande, ma lasciare che il pollice faccia l’ennesimo scroll tra un reel e un TikTok: avanti con il prossimo video, chissà quale incredibile challenge ci aspetta. Pollice basso, pollice alto, like. Pollice basso, pollice alto, like. Pollice basso, pollice alto, like.