Uno studio condotto nel decennio scorso dalla University of California di Los Angeles stima che entro il 2050 una persona su 85 a livello mondiale sarà colpita dalla malattia di Alzheimer, in forma più o meno grave. Da qui la necessità di potenziare gli strumenti diagnostici in grado di identificare il morbo nelle sue prime fasi di sviluppo, così da poter intervenire prontamente e contrastrarne il progredire.
Alzheimer: un’IA per la diagnosi
Dalla collaborazione fra i team BDRAD (per esteso Big Data in Radiology) e Radiology & Biomedical Imaging Department della UC Berkeley arriva una speranza. Si parla ancora una volta di un’intelligenza artificiale, più nello specifico di algoritmi che esaminando gli esiti di analisi cliniche condotte sul cervello dei pazienti anni prima del manifestarsi dei sintomi riescono a stabilire l’esistenza di un fattore di rischio. Si tratta di PET con FDG, dove il Fluoro-Desossiglucosio (una forma radioattiva di glucosio) viene immesso nel flusso sanguigno e va a raggiungere tutti i tessuti del corpo, compresi quelli cerebrali, permettendone così l’osservazione dell’attività metabolica.
Come si legge nell’articolo pubblicato sulla rivista Radiology, l’IA è stata istruita sottoponendole 2.109 esami appartenenti a 1.002 pazienti. Poi, una volta perfezionata, è stata messa alla prova con le indagini cliniche di altri 40 pazienti effettuate tra il 2006 e il 2016, per capire se in grado di rilevare l’insorgere della malattia e con quale livello di precisione: il 100% dei casi in cui il soggetto ha poi effettivamente sviluppato una forma di Alzheimer sono stati individuati con successo, così come l’82% di coloro che non ne sono stati affetti. Le percentuali si sono fermate rispettivamente a 57% e 91% quando gli stessi esami sono stati vagliati da un team di specialisti.
Ancora una volta, come ribadiamo ogni volta che si parla dell’impiego di un sistema d’intelligenza artificiale in ambito medico, la finalità di un simile progetto non è il alcun modo quella che mira a rimpiazzare l’esperienza e le competenze del personale specializzato. Si punta anzi a fornire ai medici un valido supporto a cui ricorrere in fase di valutazione, rendendo l’operazione più rapida e riducendo il margine di errore.
Niente facili entusiasmi
Gli autori dell’iniziativa sottolineano in ogni caso come sia al momento fuori luogo lasciarsi andare a facili entusiasmi: l’IA è stata messa alla prova con un set relativamente ristretto di dati e necessita di ulteriori fasi di training. Ciò detto, una strada di questo tipo rimane percorribile e vi si può guardare con speranza per gli sviluppi futuri. Queste le parole di Jae Ho Sohn, uno dei ricercatori coinvolti nel progetto.
Se diagnostichiamo la malattia di Alzheimer solo quando tutti i sintomi si sono già manifestati, il volume della materia cerebrale compromessa è così elevato da tendere vano ogni intervento. Facendolo in anticipo c’è invece una possibilità per trovare il modo di rallentare o addirittura bloccare lo sviluppo della patologia.
L’impatto dell’IA nel mondo della salute, del resto, può essere dirompente: l’analisi di una grande quantità di dati più o meno strutturati potrebbe consentire l’emersione di nuove evidenze utili alla costruzione del miglior contesto per una diagnosi. Quest’ultimo passaggio dovrà giocoforza risultare da una valutazione umana, ma l’interazione tra uomo e IA può mettere in luce sinergie potentissime. Quando tale meccanismo travalicherà il confine della diagnosi per approdare a quello della cura, il valore risultante potrà essere inestimabile. Ed è forse questa una delle frontiere più desiderabili ed auspicabili per tutto quel che è Intelligenza Artificiale.